L'EDITORIALE DEL DIRETTORE BARBANO | IL MEZZOGIORNO E GLI ASCARI DEL PREGIUDIZIO

L'EDITORIALE DEL DIRETTORE BARBANO | IL MEZZOGIORNO E GLI ASCARI DEL PREGIUDIZIO
di Alessandro Barbano
Lunedì 28 Dicembre 2015, 08:36 - Ultimo agg. 29 Dicembre, 13:50
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Il dualismo Nord-Sud non è solo economico, politico, civile e culturale, ma anche etnico. Sì, avete sentito bene, etnico. Lo scrive Eugenio Scalfari nell'editoriale di ieri su «la Repubblica». La sua sentenza è tanto convinta quanto priva di motivazione. Per cui non è dato di sapere a quale fonte scientifica o pensiero attinga il venerabile giornalista. Esiste un'etnia meridionale? E qual è? Noi, che pure cerchiamo di raccontare l'Italia con un punto di vista meridionalista, facciamo fatica a individuarne una. Sia che l'etnia si consideri, come faceva Max Weber, una nazione senza Stato, cioè un gruppo umano che condivide la credenza soggettiva di una comune origine. Sia che la si voglia addirittura far derivare, in senso positivistico ottocentesco, dall'identità di caratteri morfologici, linguistici e culturali riferibili a un gruppo umano specifico. La storia italiana pare tanto ricca di contaminazioni da escludere qualunque giudizio categorico riferibile a un concetto che, a voler essere indulgenti, si potrebbe definire «romantico».

Ma tant'è. Dopo aver ascoltato il presidente della commissione Antimafia parlare di «camorra strutturale alla città di Napoli», credevamo che il repertorio dei pregiudizi sul Mezzogiorno fosse completo. Invece ci sbagliavamo. I pregiudizi di Scalfari nella sua narrazione dei mali del Sud sono un campionario ben più ampio, ancorché non originale. Vanno dalla razza alla storia, passando per la morale. Una storia abborracciata del Mezzogiorno è una costante nel paradigma di questi racconti. Ed è una storia di bianchi e di neri, dove i neri stanno tutti al Sud, «briganti e borbonici, clericali e assai più spesso capi bastone, che guidavano clientele dei latifondisti ed avevano il potere del potere locale». Una simile versione pare l'altra faccia, sovrapposta e coincidente, di certe cialtronerie neoborboniche, che raccontano l'unificazione nazionale come la storia di un genocidio.

La conseguenza ovvia di questa visione è l'identificazione del Sud come esportatore di tutti i mali del Paese. Scalfari va oltre. Sostiene che la mafia e la corruttela degli ascari e degli emiri meridionali, che continuano a comandare, si sarebbero diffuse in tutto il mondo come effetto di una contaminazione perniciosa. È il paradigma del contagio, tanto trito quanto abusato da molti saggisti di successo. Con minore rozzezza e motivazioni più complesse, ancorché non convincenti, l'ha adottato di recente un giovane storico, Emanuele Felice, in due libri che hanno goduto di un grande rimbalzo mediatico.

La tesi di Felice è che il ritardo del Mezzogiorno sia il frutto del carattere «estrattivo» delle sue istituzioni e della sua borghesia, le quali si sarebbero limitate ad accettare passivamente la modernizzazione, orientandone le risorse verso la rendita più che verso gli usi produttivi e mantenendo la gran parte della popolazione nell’ignoranza. Felice riferisce il suo giudizio all'agire delle élite meridionali nella storia e non all'etnia, ma commette l'errore di considerare la loro debolezza come una causa, piuttosto che come un effetto. In ogni caso la croce sulle classi dirigenti del Mezzogiorno offre una via d'uscita rispetto alla difficoltà di porre sul banco degli imputati l'intera società meridionale. Separare le colpe dei governanti da quelle dei governati è un tentativo maldestro di sottrarsi all'accusa inevitabile di razzismo culturale. Così, per Scalfari oggi il Sud è «una terra dove vegetano milioni di persone perbene come anime morte», poiché «il potere ce l'hanno i truffatori e i capi delle clientele». Ernesto Galli della Loggia, che Scalfari cita e loda nel suo editoriale, sette giorni fa sul Corriere della Sera aveva definito il Mezzogiorno «una società disanimata, svuotata di energie, incapace di dibattiti, autocritiche e progetti». Entrambe queste analisi sono utilizzate dai due commentatori come premesse per criticare la politica del governo Renzi sul Mezzogiorno. E tuttavia, se fosse vera la loro diagnosi, lo stesso governo dovrebbe essere assolto, poiché, nell'impossibilità di commissariare l'intera classe dirigente meridionale, dovrebbe accettare come interfaccia una rappresentanza di delinquenti, ascari ed emiri.

Ora, è evidente che Scalfari e Galli della Loggia il Mezzogiorno lo incontrano solo in cartolina o nei salotti di qualche premio letterario e/o mondano. Ed è altrettanto evidente che gli unici ascari del pregiudizio sono loro, emiri di un corporativismo culturale diverso negli esiti, ma simile per entrambi nella distanza dal corpo del Paese. E che, con riguardo al Mezzogiorno, utilizza le categorie e i preconcetti di una certa storiografia d'antan per leggere un presente che non conosce e che rinuncia a conoscere. Che c'entrano infatti la storia e l'antropologia con il ritardo e il destino del Sud? Il cui scarso capitale sociale e la stessa qualità delle classi dirigenti non sono una colpa genetica, ma piuttosto il termometro di un momento storico a cui non è estranea la disattenzione delle politiche attuali e recenti. Invece di sdottoreggiare sulle polemiche tra Salvemini e Giolitti, che nulla, tranne il vezzo dell'erudizione, hanno a che vedere con la condizione odierna del Mezzogiorno, i nostri acuti pensatori dovrebbero applicarsi su alcune obiettive condizioni di svantaggio che da un quarto di secolo hanno voltato la rimonta in rinuncia: una globalizzazione che concentra le ricchezze e i cervelli nei luoghi più forti, svuotando le periferie dell'Europa; un federalismo a trazione nordista, che ha riscritto le regole della solidarietà trasformando i punti di debolezza del Sud in altrettante condizioni di punibilità; la crisi dei partiti e dei pensieri politici, le uniche strutture in grado di organizzare e orientare gli interessi del Paese reale verso obiettivi qualitativi; le nuove forme della democrazia mediale-internettiana, che in Italia hanno avuto l'effetto reattivo di aumentare il settarismo e l'autoreferenzialità delle élite. Non è vero che il Mezzogiorno è esangue, rassegnato, incapace di autocritica e di progettualità. Chi lo vive e lo racconta da qui constata la sua persistente vitalità e, soprattutto, la sua attuale difficoltà: fare massa critica in una democrazia ormai quantitativa, dove chi ha più mezzi e più rappresentanti s'impone.

Al confronto con queste condizioni va misurata una politica meridionalista, che è stata rimessa in piedi da questo governo dopo due decenni di totale amnesia delle classi dirigenti nazionali, ma che, nelle condizioni date, non pare in grado di riequilibrare il divario con il Nord e lo svuotamento progressivo di risorse, soprattutto umane, che affligge il Mezzogiorno. Dalla migliore intellighenzia ci si attenderebbe il coraggio di chiedere alla classe politica e alle diverse concrezioni del potere, anche notabilari e non per questo meridionali, quali mezzi sono disposte a mettere in comune per aiutare il Sud a stare al passo con il resto del Paese. Ma forse è proprio questa la domanda frontale che si vuole evitare.
 
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