Premierato, sì in Senato. E per la legge elettorale l’ipotesi del doppio turno

Primo via libera di Palazzo Madama. Casellati: «Il ballottaggio è una soluzione»

Premierato, sì in Senato. E per la legge elettorale l’ipotesi del doppio turno
di Francesco Bechis
Mercoledì 3 Aprile 2024, 00:17 - Ultimo agg. 15:45
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Un primo ostacolo, nella lunga corsa del premierato, la «madre di tutte le riforme» targata Giorgia Meloni, è stato superato ieri al Senato. Dove è arrivato il via libera della Commissione Affari costituzionali guidata dal meloniano Alberto Balboni al cuore della legge-bandiera della destra a Palazzo Chigi. E cioè l’articolo 3, che introduce l’elezione diretta del premier: un solo voto per decidere chi occuperà gli scranni del Parlamento e chi avrà in mano il timone del governo.

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È qui che si è aperto un nuovo fronte ieri, dentro e fuori la maggioranza.

Il nuovo testo infatti si limita a indicare in Costituzione la necessità di un premio di maggioranza da assegnare a chi vince le elezioni, senza precisare la percentuale esatta dei seggi, inizialmente fissata al 55 per cento. E qui si apre un bel rebus: la legge elettorale, che dovrà decidere le regole del gioco. Ieri è arrivata un’apertura insolita, per certi versi clamorosa del governo all’ipotesi di un sistema a doppio turno. 


L’APERTURA
Nella storia della destra italiana il ballottaggio è quasi sempre stato una bestia nera. Si contano sulle dita di una mano i casi in cui il secondo turno - è successo con Alemanno a Roma - ha tirato la volata al centrodestra invece che tagliargli la strada. E invece ora non è più un tabù, ha detto ieri al Senato il ministro delle Riforme Elisabetta Casellati. «Può essere una delle ipotesi in campo, vedremo se sarà necessario, quale sarà la soglia, il premio di maggioranza e quale sistema elettorale sarà prefigurato», ha aperto l’esponente di Forza Italia. Ed ecco Balboni fare lo stesso da FdI: «Se non si decide una soglia minima, del 42 o 43 per cento di voti, resta solo il balottaggio». 


Governabilità da un lato, rappresentatività dall’altro. Ondeggia in mezzo il pendolo della “riforma madre” di Meloni. A premere per accelerare sulla legge elettorale c’è la Lega di Matteo Salvini, che ieri ha battuto i pugni al tavolo con il senatore Paolo Tosato. «Vorrei ci fosse la garanzia che la maggioranza che otterrà il presidente del Consiglio corrisponda alla certezza che abbia una maggioranza in Parlamento», il ragionamento. Del resto è stata la Corte Costituzionale, ai tempi dell’Italicum di Renzi, a piantare i paletti: se è previsto un premio di maggioranza, allora la legge elettorale deve fissare una soglia minima di voti. L’alternativa, agitata ora dal governo - senza troppa convinzione - è appunto ricorrere al doppio turno. Il testo, fa sapere intanto la Lega con un monito a Palazzo Chigi, «può essere ancora migliorato».

Un beneficio del dubbio che non concedono le opposizioni, durissime sul premierato in gestazione al Senato. Affonda il colpo il presidente del Movimento Cinque Stelle Giuseppe Conte, ospite di Bruno Vespa a “Cinque minuti”. Convinto che la riforma ridurrà il presidente della Repubblica a «un passacarte». «Non ci porterà stabilità ma solo maggiori potere al presidente del consiglio, che già ne ha tanti», dice Conte che conosce bene le stanze di Palazzo Chigi e pure quelle del Quirinale. «Una soluzione che non c’è in nessun altro paese al mondo, ci sarà una ragione?». Più tranchant contro il «melonato» Riccardo Magi, segretario di Più Europa: «Una persona sola al comando e la fine della democrazia parlamentare». Che poi la persona al comando (a Palazzo Chigi) sia una sola, è un tema controverso anche fra alleati. Sì perché in queste ore è in corso una trattativa tra Lega e Fratelli d’Italia per sciogliere un dubbio non da poco sul testo caro a Meloni. Fatta eccezione per il “legittimo impedimento” fisico del premier in carica, ci sono altri casi in cui immaginare una staffetta con un secondo presidente del Consiglio? Per i “Fratelli” al Senato la risposta è semplice: no. 


IL NEGOZIATO
Meloni sul punto è stata chiarissima. Simul stabul, simul cadent. O anche, «basta inciuci»: se il premier perde la sua maggioranza in Parlamento, si torna alle urne. Il Carroccio però vuole vederci chiaro e si aggrappa a un passaggio della riforma, che parla di ritorno al voto in caso di «dimissioni volontarie» del premier. Ecco il nodo da sciogliere: se il governo finisce sotto in aula su un provvedimento su cui ha messo la fiducia, le dimissioni sono volontarie o obbligate? Si rivota il giorno dopo, o un altro esponente della maggioranza può varcare il portone del Quirinale e prestare giuramento? 


Dettagli su cui ancora si discute e tratta. Non senza un certo fastidio della destra meloniana convinta che la Lega, qui come sulla legge elettorale, abbia interesse a vestire i panni dell’azzeccagarbugli per rallentare il percorso della riforma. Almeno finché non accelererà la legge-simbolo del Carroccio, l’autonomia differenziata che Salvini ha promesso ai militanti del Nord in subbuglio, possibilmente con un primo via libera alla vigilia del voto Ue. Intanto la premier va avanti, segue a distanza ravvicinatissima il cammino della “sua riforma”. E già si prepara al dopo: al referendum costituzionale considerato un’incombenza ovvia, a Palazzo Chigi. Oggi FdI presenterà al Senato i «comitati elettorali» per il grande test che deciderà il destino del premierato. E forse non solo questo. 
 

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