Distrofia miotonica di tipo 1,
uno studio sulla terapia genica

Distrofia miotonica di tipo 1, uno studio sulla terapia genica
Sabato 18 Dicembre 2021, 15:25
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Una strategia capace di correggere il difetto genetico della distrofia miotonica di tipo 1 (DM1) è stata messa a punto in uno studio preclinico, utilizzando cellule derivate dai pazienti e un modello murino che mostra diverse caratteristiche della malattia. Lo studio, pubblicato sulla rivista internazionale Molecular Therapy Nucleic Acids, è coordinato da Germana Falcone, dell’Istituto di biochimica e biologia cellulare del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ibbc), e partecipa al progetto la Cardiologia molecolare diretta da Fabio Martelli, presso l’Irccs Policlinico San Donato (Gruppo San Donato). A sostenere lo studio, un finanziamento di Fondazione Telethon a favore del Cnr-Ibbc e della Gruppo San Donato Foundation, ente no profit che sostiene la ricerca scientifica degli IRCCS del Gruppo San Donato.

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C'è grande attenzione per la ricerca. La DM1 è infatti la forma più comune di distrofia muscolare negli adulti (1 caso ogni 5000 individui) e colpisce vari organi, in particolare i muscoli e il sistema nervoso centrale, con conseguenti disturbi della funzionalità cardiaca, atrofia muscolare e alterazione delle funzioni cognitive. Soprattutto nelle forme più gravi, la qualità e l'aspettativa di vita delle persone affette risultano gravemente compromesse. La causa della malattia sta nell’aumento abnorme del numero di triplette di CTG (le basi citosina, timina e guanina, elementi costitutivi del Dna) presenti in un gene denominato DMPK e nella produzione di un Rna messaggero “tossico” per le cellule, che provoca una alterazione generalizzata dell’espressione genica.

Sebbene siano stati tentati molti approcci terapeutici, principalmente rivolti ad alleviare i sintomi, nessuno di questi ha portato finora ad una cura definitiva della malattia.


Lo studio italiano ha utilizzato un metodo di editing genomico basato sull’uso del complesso CRISPR-Cas9, già usato su un’ampia gamma di organismi, ma che solo recentemente è stato applicato con successo anche a fini terapeutici in cellule umane, grazie all’intuizione di due ricercatrici, Emmanuelle Charpentier e Jennifer Doudna, insignite nel 2020 del premio Nobel per la chimica proprio per questa scoperta.
 

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