La prima volta di Maresca:
«Nel bunker di Zagaria
con le lacrime agli occhi»

La prima volta di Maresca: «Nel bunker di Zagaria con le lacrime agli occhi»
Sabato 30 Novembre 2019, 10:03 - Ultimo agg. 6 Gennaio, 11:56
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La prima volta in cui si è trovato a fare i conti con una scelta importante - quella che poi avrebbe condizionato tutta la sua vita - fu quando suo padre Giovanni, professore di filosofia in un liceo di San Giorgio a Cremano, gli aprì la porta di casa stringendo in una mano la pagella e nell'altra la borsa del calcetto. Il messaggio lasciava poco spazio all'immaginazione: o si studia sul serio o ci si allena per diventare calciatore, le due cose non sono compatibili. La scelta è tua, ma riflettici bene e, se davvero vuoi diventare magistrato, impegnati. Non dormì per tre notti, Catello Maresca - l'uomo che nel 2011 si sarebbe reso protagonista della più importante operazione antimafia degli ultimi dieci anni in Campania: la cattura del boss Michele Zagaria, la primula rossa, in testa alla lista dei latitanti più pericolosi del Paese.

Ma torniamo a quella pagella.
«Frequentavo il quarto ginnasio al liceo Quinto Orazio Flacco di Portici. Benché fossi sempre stato uno studente attento e rigoroso, molto vicino alla categoria dei secchioni, portai a casa una media un po' traballante». 

Come mai?
«Mi piaceva giocare a pallone, e me la cavavo pure bene. Così, allenamenti durissimi tre volte alla settimana e partite ogni sabato».

Faceva sul serio, insomma.
«L'allenatore già mi vedeva in campo da professionista. I presupposti c'erano tutti».

E lei voleva fare il calciatore?
«In verità, a 14 anni avevo già deciso che sarei diventato magistrato, ma giocare a pallone era una grande passione. In ogni caso, mio padre era stato chiaro. Con grande amarezza, non mi restò altro da fare che prendere quella borsa e tutte le maglie di cui andavo tanto fiero, e riconsegnarle al mister: la mia carriera sportiva finiva lì. Da quel momento, presi il volo - prima a scuola e poi all'università».

Ma davvero in quarto ginnasio già sapeva che cosa avrebbe fatto da grande?
«È strano, lo so. Sarà stato per un innato senso di giustizia o per la voglia di fare qualcosa per gli altri, ma ero ragazzino e già mi vedevo con la toga. Con una parentesi politica». 

Pure quella?
«Mi candidai con una lista civica, avevo 21 anni, e venni eletto consigliere comunale a San Giorgio a Cremano. Ricordo ancora il mio primo discorso al microfono, fu un'emozione».

A che età invece è diventato magistrato?
«A 27 anni. Era il primo giugno del '97. Studiavo a casa di un collega, quando mi telefonò mio padre: Ce l'hai fatta. Ha chiamato Sasà Galli, sei passato, complimenti. Ma di che parli?. Sulle prime, non avevo nemmeno capito. Sasà Galli era il mio maestro, e io avevo superato la prova scritta».

E con l'orale come andò?
«Una prova sulla quale non bisogna riflettere».

In che senso?
«Rischi di convincerti che non ce la farai mai. È come sostenere una quindicina di esami tutti insieme, per giunta da studiare in pochi mesi. La prima volta in vita mia che non andai in vacanza. E, ovviamente, quell'estate fu tra le più calde della storia». 

Il suo primo caso?
«Non si scorda mai. Mi ero piazzato 34esimo in graduatoria, e avevo scelto la Procura di Napoli. Al comando c'era Agostino Cordova. Il primo incontro fu piuttosto traumatico: avvolto in una nuvola di fumo, mi parlò sbiascicando qualcosa che non riuscii a capire, e che non ebbi il coraggio di chiedergli di ripetere. Insieme con una giovane collega, venni parcheggiato nell'anticamera di Pio Avecone».

Il procuratore aggiunto scomparso alcuni anni fa?
«Lui. Era disponibile con noi, e ogni tanto ci passava qualche fascicolo. Il primo che ci venne affidato ci fece trovare di fronte l'avvocato Lepre, serio e puntiglioso. Ma anche il caso in sé era piuttosto complesso, per noi che eravamo alle prime armi».

Di che cosa si trattava?
«Si chiedeva accesso a degli atti riservatissimi, senza averne dritto. Con Teresa Grieco ci lavorammo a lungo, ma non riuscivamo mai a trovare il coraggio di firmare quel provvedimento, che infatti rigettammo». 

L'avvocato Lepre non l'avrà presa bene.
«Alla fine, però, abbiamo stabilito un rapporto di stima reciproca».

Dal primo fascicolo di Pio Avecone all'arresto di Michele Zagaria. 
«Potrei dire: la prima volta che l'ho preso avevo 39 anni».

La fine di un incubo?
«Gli ho dedicato tre anni della mia vita, senza fare altro, senza mai pensare ad altro, senza concedermi un solo giorno di vacanza, se non per accompagnare i miei figli al mare e tornare. Andavo in giro con cinque uomini di scorta. E, ventiquattro ore su ventiquattro, il mio pensiero era uno solo: arrestare quell'uomo».

Alla fine ce l'ha fatta.
«È stata dura. In quel periodo, persi anche mio padre, la persona che riusciva a darmi sempre forza. Abitavamo nello stesso palazzo, e non c'era sera che non passassi da lui per sfogarmi e ascoltare le sue parole. Quando è morto, a dicembre del 2010, sulla sua tomba ho giurato che avrei preso Michele Zagaria». 

Promessa mantenuta.
«Sì. Ma alla fine ero quasi sfigurato, logorato nel fisico. Si vede anche nelle foto scattate durante la conferenza stampa per annunciare l'arresto: mi ero trasformato in un'altra persona. Ricordo che i colleghi mi chiamavano 'o maresciallo, a me toccava il lavoro più duro e stressante, quello che non tutti volevano fare, e del quale io invece andavo fiero». 

Lei che scende nel bunker dove il superboss dei Casalesi aveva trascorso parte dei 16 anni di latitanza è un'immagine che non si può dimenticare.
«Dovevo essere io il primo a entrare. Volevo guardare con i miei occhi il luogo in cui si era nascosto l'uomo al quale avevamo dato quella caccia senza tregua».

Momenti di scoraggiamento?
«Tanti. Due tentativi erano già andati a vuoto, e su di me sentivo forte anche il peso della squadra con la quale lavoravo. Chiedevo a tutti grandi sacrifici e mi sembrava giusto lavorare sempre più di loro: ero il primo a arrivare in ufficio e l'ultimo a andare via». 

La prima volta che l'ho preso.
«E la prima volta che ho pianto per il mio lavoro. Dietro quell'indagine, c'erano fatica e sofferenza. Quando risalii dal bunker, mentre le immagini della cattura di Michele Zagaria già facevano il giro del mondo, andai a rifugiarmi in un capannone poco distante. Mi rintanai in un angolo e scoppiai a piangere. Finalmente, aveva vinto lo Stato».
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