«State alla larga dal Paradiso, ​quella villa è un inferno!»

Misteri e leggende di un luogo scomparso

«State alla larga dal Paradiso, quella villa è un inferno!»
di Vittorio Del Tufo
Domenica 10 Dicembre 2023, 11:06
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«El Signore cominciò ad aprirmi gli occhi et mi fece in fra l'altre vedere tre cose. La prima, che Christo è quello che ha satisfatto per li suoi eletti et meritatogli il paradiso, et che lui solo è la giustizia nostra. La seconda, che i voti dell'humane religioni sonno non solo invalidi, ma impij. La tertia, che la Chiesa Romana, benché di fuore resplenda agl'occhi carnali, nientedimeno è essa abomininatione in conspetto di Dio» (Bernardino Ochino)

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È opinione diffusa che la più bella, sfarzosa ed elegante dimora napoletana del 500 fosse la villa appartenuta a Colantonio Caracciolo, marchese di Vico ed esponente di una delle più importanti famiglie del Regno di Napoli, protagonista dei fermenti politici, religiosi e culturali della prima metà del Cinquecento. Parliamo della villa rinascimentale detta Il Paradiso, i cui ruderi, nella zona oggi compresa tra Porta Capuana e Porta Nolana, furono spazzati via durante la costruzione dei nuovi rioni. Più famoso di Colantonio Caracciolo, ed erede diretto di Villa Paradiso, fu suo figlio Galeazzo, di cui s'intrigò anche Benedetto Croce nelle sue Leggende.
Ancora oggi Villa Paradiso - un luogo della memoria - è famosa per i suoi misteri e le sue leggende. Leggende che sarebbero legate alla fama sinistra che circondava la famiglia dei marchesi di Vico e all'epigrafe (datata 1543) che sovrastava l'arco d'ingresso del palazzo, con una precisa dedica agli dèi pagani: «Genio as aedes, Gratiis hortos, nymphis fontes, nemus Faunis, et totius loci venustatem Sebeto et Syrenibus».
Quasi un omaggio al diavolo e alle eresie, come sottolineò Croce. Quelle eresie di cui si erano resi colpevoli i padroni di casa e in particolare Galeazzo, che convertitosi al calvinismo abbandonò Napoli (e Villa Paradiso) per Ginevra, dove si dedicò alla lettura delle opere di Lutero.

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Che storia, quella di Villa Paradiso, con le sue fontane e i suoi giochi d'acqua, i suoi viali alberati e le sue statue antiche, che celebravano il mito e la natura. Come si osserva nelle antiche mappe, tutt'intorno Porta Capuana vi erano grandi aree verde, con parterre rinascimentali e aiuole collegate da sentieri di ghiaia. La villa dei marchesi di Vico sorgeva probabilmente in quest'area, anche se le fonti divergono sull'esatta ubicazione della dimora. Ad esempio Pompei Sarnelli, nella sua Guida dei forestieri del 1697, la colloca in zona Porta Nolana. La dimora, nelle intenzioni del primo proprietario, Colantonio Caracciolo, doveva far concorrenza alle famose «delizie alfonsine» fatte costruire durante il periodo aragonese da re Alfonso II: il Poggio Reale, con il suo splendido parco che arrivava fino al mare; La Duchesca, per la cui costruzione furono mandate via con la forza le suore del convento della Maddalena; La Conigliera, di cui sopravvive qualche traccia in via Luperano 7, al Cavone; e la Ferrantina, nella zona dell'attuale liceo Umberto, a Chiaia.
Villa Paradiso non era da meno. Conobbe fasti e glorie fino a quando il legittimo proprietario restò Colantonio Caracciolo, rampollo di una nobile famiglia, quella dei Caracciolo, che era stata premiata con il titolo di «marchesi di Vico» per la fedeltà all'imperatore Carlo V. Il padre di Colantuono, Galeazzo, da condottiero aragonese aveva partecipato alla liberazione di Otranto dai Turchi Ottomani.

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Fasti e glorie terminarono con l'avvento dell'altro Galeazzo, figlio di Colantonio. Cominciò da quel momento la «paurosa reputazione di quel luogo come casa degli spiriti» (Croce, Storie e leggende napoletane). Per inquadrare storicamente la nascita della leggenda (Villa Paradiso dimora degli eretici, dunque del diavolo) bisogna calarsi nell'atmosfera di quegli anni tumultuosi. Anni nei quali il padre-padrone di Napoli era don Pedro de Toledo: il vicerè che tentò di introdurre in città, senza riuscirvi, l'Inquisizione sul modello spagnolo. Il vicerè Toledo non esitò a imporre il pugno di ferro contro i fenomeni di eresia che si riteneva infestassero il territorio del vicereame, e che pertanto andavano puniti con la sferza, il carcere duro e, nei casi più gravi, con la morte. A preoccupare don Pedro, più che l'odore di zolfo che si riteneva provenisse da certi ambienti intellettuali, erano soprattutto i nemici politici, quelli che mal sopportavano lo strapotere vicereale. Da qui il tentativo - per fortuna fallito - di istituire un Tribunale dell'Inquisizione sul modello di quello spagnolo, Tribunale che avrebbe conferito al monumentale vicerè un formidabile strumento per fare piazza pulita dei suoi oppositori.
In quegli anni nuovi fermenti agitavano la società napoletana. Il grande teologo e riformatore spagnolo Juan de Valdés aveva scelto di trasferirsi a Napoli e la sua casa alla Riviera di Chiaia era diventata un circolo letterario e religioso frequentato dalle menti più eccelse della città. La necessità di una profonda riforma spirituale della Chiesa era avvertita con forza anche da quanti non avevano sposato la dottrina luterana. È rimasto famoso il rapporto che legò Valdés alla nobildonna Giulia Gonzaga, che frequentò il circolo del Valdés e fu nominata, alla sua morte, erede di tutti i suoi scritti.
Tra i frequentatori del circolo di Valdès figurava anche Galeazzo Caracciolo, il proprietario di Villa Paradiso. Il quale subì l'influenza soprattutto del teologo Bernardino Ochino, famoso per le sue prediche ispirate ai princìpi della riforma protestante. Fu proprio il rischio di essere sbattuto in galera (con don Pedro non si scherzava) per le sue frequentazioni che spinse Galeazzo, nella primavera del 1551, all'esilio volontario a Ginevra. Qui entrò in confidenza con lo stesso Calvino, che gli dedicò la seconda edizione dei suoi Commentari sull'epistola ai Corinti. La scelta di Galeazzo destò scandalo tanto negli ambienti religiosi quanto in quelli politici. Il più infuriato di tutti era il padre Colantonio, che, a quanto si racconta, gli lanciò un terribile anatema. L'imperatore Carlo V in persona stabilì l'esclusione di Galeazzo dalla linea di successione familiare, a favore del figlio, chiamato anch'egli Colantonio come il nonno. Infine la moglie, Vittoria Carafa, da cui aveva avuto sette figli, provò invano a farlo tornare sui propri passi. Ma Galeazzo, che non si fidava più di nessuno, chiese il divorzio alle autorità ginevrine sostenendo che la moglie lo aveva abbandonato.

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Con la fine di Galeazzo Caracciolo finì anche, come si diceva, il periodo d'oro di Villa Paradiso, con i suoi portici, le sue logge e le sue sale dipinte da Andrea da Salerno. Un po' alla volta, annotarono gli storici, il giardino veniva distrutto, le fabbriche abbattute o riadattate, e «agli spiriti finì col mancare del tutto quella dimnora da loro prediletta» (Croce).
Al nonno di Galeazzo, e suo omonimo, Galeazzo Caracciolo di Vico (il papà di Colantonio) è dedicata la cappella Caracciolo di Vico, edificata agli inizi del 500 nella chiesa di San Giovanni a Carbonara.
Con l'eroe della battaglia di Otranto vi è sepolto il figlio Colantonio: entrambi lontani da quella villa che diede lustro al loro casato e oggi è un luogo della memoria, fantasma tra i fantasmi della nostra vita passata.

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