Gabriele Salvatores e il ritorno di Casanova: «Il cinema mi ha salvato la vita»

«Nei momenti difficili l'idea di avere un film da fare mi ha sempre tenuto lontano dai brutti pensieri»

Gabriele Salvatores
Gabriele Salvatores
di Titta Fiore
Lunedì 27 Marzo 2023, 11:00
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Imparare a fare i conti con il tempo che passa, venire a patti con la propria immagine che cambia, riconoscersi nell'altro in un gioco di specchi che assomiglia pericolosamente alla vita. Non a caso Gabriele Salvatores cita in apertura del suo nuovo film le parole sugli incantesimi infanti pronunciate da Prospero nella «Tempesta» di Shakespeare: «La forza che possiedo è solamente mia, ed è poca». Perché «Il ritorno di Casanova», liberamente ispirato al racconto di Arthur Schnitzler, si nutre di questi dualismi e di molto altro, come il gioco sottile tra seduzione e desiderio, o la sfrontata guerriglia tra la giovinezza e i segni impietosi della vecchiaia. Nel film prodotto da Indiana e Rai Cinema, che arriva giovedì in sala distribuito da 01 dopo l'anteprima al Bif&st di Bari, Toni Servillo è un acclamato regista alla fine della carriera che non ha alcuna intenzione di accettare il suo lento declino, Fabrizio Bentivoglio è un Casanova avanti negli anni che ha perso il suo fascino, non ha un soldo in tasca e non ha più voglia di girovagare per l'Europa. Le inquietudini e i dubbi dei due uomini, il venerato maestro in gara con un più giovane collega per il Leone d'oro di Venezia e il personaggio raccontato da Schnitzler e messo in scena dal regista, sono assai simili. E, parlando di loro, il premio Oscar Salvatores (che stasera presenterà il film al Modernissimo con Toni Servillo) parla anche un po' di sé. Dice il regista: «Certo, tutti i film contengono qualcosa di chi li fa. Ai tempi di "Marrakech Express" potevo essere uno dei ragazzi che andavano in Marocco a trovare un amico».

E ora, cosa l'accomuna a Leo Bernardi, il cineasta interpretato da Servillo?
«Una serie di pensieri, ansie e paure che anch'io avverto al momento di fare i conti con il mestiere del regista.

Da tempo pensavo di lavorare sul libro di Schnitzler, ma con gli anni ho cominciato a leggerlo in maniera diversa. Inizialmente mi aveva colpito il tema del doppio, carissimo allo scrittore austriaco molto amico di Freud, andando avanti sono emersi altri elementi, come il passaggio del tempo e la necessità di lasciarsi aperta qualche porta. Casanova è destinato a fallire nel tentativo di restare uguale a se stesso e nella scena di un duello particolarmente crudele realizza di essere vecchio, guardando il corpo nudo del giovane rivale. Invece il personaggio di Toni, pur essendo legato a un ego invadente e un po' ridicolo nei capricci da eterno bambino, alla fine si lascia aperta una strada per il futuro. E tutto accade grazie a una donna. Perché la vita va più veloce del cinema e ti sorprende con segni importanti che bisogna saper cogliere».

Però nel film la vita reale è in bianco e nero, mentre il cinema è raccontato a colori.
«Vero, ma stiamo attenti a non trasformare quei colori in una droga».

In che senso?
«Corriamo il rischio di rifugiarci in un mondo fantastico che abbiamo creato per tenerci al riparo dal grigiore della quotidianità. Per anni l'ho fatto anch'io. Del resto, non era Fellini il primo a considerare il cinema l'antidoto a una realtà deludente?».

Alla fine, ogni regista è un creatore di mondi e, quindi, anche di illusioni.
«A me il cinema ha salvato la vita. In senso letterale. Tanti anni fa mi dissero che avevo poco da vivere e che avrei fatto bene a pensare di sistemare le mie cose. Per fortuna la diagnosi era sbagliata, ma quando mi comunicarono che non ne avrei avuto per molto pensai che da quel momento mi sarei dedicato solo a ciò che desideravo di più. Il cinema. E nei momenti difficili l'idea di avere un film da fare mi ha tenuto lontano dai brutti pensieri. Sì, il cinema mi ha salvato. Ma resta una finzione, non dobbiamo commettere l'errore di considerarlo migliore della vita».

Lei come si tutela?
«Riflettendo molto su certi temi, questo film è un'occasione per farlo. E poi c'è Rita, la mia compagna, a tenermi con i piedi per terra. Il cinema è uno dei mestieri più belli del mondo, però non è gratis. Ti dà e ti toglie. Io, per esempio, non ho avuto figli, pensavo che non avrei potuto dedicargli abbastanza tempo. Si dice sempre che i film sono come figli, ma la sera non puoi abbracciare una pellicola... Noi che facciamo il cinema siamo una tribù che vive in un mondo parallelo, in una dimensione speciale, diamo una enorme importanza a un lavoro che la gente considera un diversivo, quasi un'alternativa alla pizza».

Nella prima scena del film i premi vinti dal regista Servillo sono illuminati dalla luce delle candele...
«Le candele si consumano, e anche la luce di premi prima o poi si spegne. Ma la crisi che attraversa il nostro protagonista non è creativa, come accadeva al Mastroianni di "Otto e mezzo", è umana. Leo non vuole finire il suo film perché ha paura di affrontare i problemi della vita e, allo stesso tempo, si angoscia all'idea di entrare in un nuova fase».

Le capita mai?
«Ogni volta che c'è all'orizzonte un nuovo progetto: comincio a sentire solo musica su quel tema, mi comporto come i personaggi, mi vesto come loro. Ora, per esempio, sto lavorando a un film ambientato negli anni Trenta e Quaranta e uso molto i gilet, creo l'atmosfera». 

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