Will Smith torna al cinema con Emancipation: «Schiavo il suo corpo libera la sua mente»

Riecco Will Smith, un'intervista concessa a patto di non far cenno di quanto accaduto agli Oscar

Will Smith col cast di Emancipation
Will Smith col cast di Emancipation
di Matteo Ghidoni
Mercoledì 14 Dicembre 2022, 11:00 - Ultimo agg. 11:33
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«Emancipation» segna il ritorno di Will Smith davanti al grande pubblico. Quasi come una richiesta ufficiale di scuse, il film diretto dal regista che aveva portato Denzel Washington all'Oscar con «Training day», Antoine Fuqua, e basato sulla storia vera di uno schiavo che cerca di sfuggire da una piantagione della Louisiana del XIX secolo, vede il protagonista soffrire ogni tipo di prepotenza e vessazione nel suo percorso verso la liberà.

La storia è ispirata a una fotografia, diventata simbolo della liberazione degli afroamericani nell'iconografia statunitense, scattata nel 1863. Un uomo, ricordato come Whipped Peter, dopo essere sfuggito alla cattività mostra alla fotocamera la sua schiena piena di cicatrici causate dagli innumerevoli colpi di frusta subiti dai padroni durante anni di schiavitù e lavori forzati. Una performance quella di Smith, che in tempi non sospetti si diceva avrebbe potuto far guadagnare all'attore di Philadelphia un'altra nomination agli Oscar dopo quella vinta lo scorso anno grazie alla sua interpretazione di Richard Williams, padre delle tenniste Venus e Serena, in «King Richard». Exploit messo in ombra dall'inaccettabile comportamento del divo durante la notte delle stelle, quando salì sul palco del Dolby Theater per schiaffeggiare il conduttore Chris Rock dopo alcune battute infelici fatte sulla moglie, Jade Pinkett Smith. 

Una scena da bar, costata molto cara: a Smith è stato vietato di partecipare agli Oscar per il prossimo decennio e, anche se a livello teorico potrebbe ancora essere candidato, è sicuramente troppo presto perché l'Academy consideri la possibilità di reintegrarlo.

La sua interpretazione in «Emancipation», disponibile su Apple TV+, non sarà sufficiente a cancellare il livido che quello schiaffo ha lasciato sulla sua reputazione.

Lui, intanto, prova a rialzarsi. Vestito color vinaccia, atteggiamento gentile e riflessivo, si concede alla premiere mondiale del film, al Regency Village Theater di Westwood, Los Angeles. Un'intervista concessa a patto di non far cenno di quanto accaduto agli Oscar. 

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Che cosa significa per lei, mister Smith, la foto da cui parte il film?
«Si tratta di un simbolo, che ricordo di avere visto quando ero giovane. Ma ora so che cosa significa ognuna di quelle cicatrici sulla schiena di Peter ha un significato: è la storia di un'intera vita di violenze subite. Nelle sue memorie leggiamo di una volta in cui è stato picchiato fino a cadere in coma, momento in cui racconta di aver incontrato Dio. Quando si è svegliato, dice di essersi trovato in un nuovo stato di fede e rivelazione. Quello è stato uno degli aspetti più interessanti per me, capire la differenza fra le due cose: se la fede è fiducia cieca nel tentativo di resistere, la rivelazione avviene quando hai finalmente visto il tuo Dio, dopo averlo pregato per tutta la vita. Peter era entrato in uno stato mentale completamente nuovo, lo stesso che sogno di raggiungere anche io».

In «Emancipation» la vediamo combattere e soffrire nel fango, lottare con gli alligatori, scappare dagli schiavisti.
«Pensavo di essere molto più preparato di quanto in realtà fossi. Portare in scena quel livello di atrocità umana, quel tipo di abusi verbali e fisici, venire chiamato con epiteti razzisti centinaia di volte al giorno da attori molto bravi nel loro ruolo, è stato molto difficile. Mi sono ritrovato immerso nel fango fino al collo con la pioggia che non smetteva di cadere e in altre situazioni estreme, mentre portavo in scena un uomo che subiva ripetute prepotenze. Sullo schermo riuscirete a sentire quella sofferenza. Non è stata dura solo per me ma per tutta la squadra. Sul set avevamo preti, un gruppo di terapisti e consulenti spirituali, per aiutare le persone che faticavano di più a superare quelle atmosfere».

Le sfide sono state tante, dal girare un film nelle paludi infestate da alligatori alla pandemia, fino a un uragano che ha colpito la zona proprio mentre stavate girando.
«Prima di tutto, devo dire che io e Antoine ci siamo sorretti e aiutati a vicenda. Poi abbiamo potuto contare su un'incredibile staff e sulla gente della Louisiana, persone che si sono presentate tutti i giorni al lavoro, sotto il sole e la pioggia, senza mai creare un problema. C'era appena stato un uragano e alcuni di loro non avevano più una casa, era pieno di teli blu sopra quel poco delle abitazioni che era rimasto in piedi. Eppure loro erano sempre lì, affidabili e puntuali. Inoltre considerate che, dopo la prima chiusura per la pandemia, abbiamo dovuto testare per il Covid più di quattrocento persone, ogni giorno. Ci volevano quattro ore solo per quello. Abbiamo affrontato le difficoltà insieme, proprio come il nostro Peter non ci siamo arresi e siamo arrivati al risultato che speravamo di raggiungere».

I suoi fan aspettavano il suo ritorno con ansia. Perché ha scelto proprio «Emancipation»?
«Guardate a che punto sono gli Stati Uniti oggi e quante cose sbagliate stanno accadendo nel mondo. Questa storia è un promemoria delle tragiche conseguenze che possono derivare dalla violenza e dalla crudeltà fra gli esseri umani. Da Peter ho imparato che il concetto di emancipazione e di libertà, sono idee interiori. Il suo corpo era schiavo ma la sua mente è sempre stata libera. Era convinto che se avesse mantenuto saldi i suoi valori, sarebbe riuscito a raggiungere la salvezza, per sé e per la propria famiglia. C'è un momento nel film in cui si trova perso fra le pericolosissime paludi della Louisiana, nel mezzo di una fuga disperata, inseguito da un gruppo di schiavisti a cavallo. Lui si ferma, si inginocchia alzando le mani al cielo e comincia a pregare, nel bel mezzo dell'inferno. Un gesto di gratitudine, come se ringraziasse per quella sofferenza, che rappresenta la sua qualità più importante: una fede incrollabile che gli conferisce una resistenza infinita. Qualcosa che spero di riuscire a coltivare in me stesso». 

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