È morto B.B. King: addio al re del blues

Una smorfia di B.B. King
Una smorfia di B.B. King
di Federico Vacalebre
Venerdì 15 Maggio 2015, 08:01 - Ultimo agg. 16 Maggio, 10:19
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Come cantava Neil Young pensando a Johnny Rotten, "the king is gone but is not forgotten". B. B. King è morto ieri notte, a 89 anni, stroncato dal dialbete di cui soffriva da tempo. Aveva annunciato così tante volte il suo ritiro, il vecchio con la chitarra venuto da Itta Bena, Mississippi, che quasi non ci credevamo più, che quasi ci aveva convinto di essere immortale. Negli occhi, nelle orecchie, nel cuore dei fans campani restano le emozioni di uno storico concerto del 1988 al vecchio teatro tenda più di quelli del 2002 all'Arena Flegrea, dell'ultima volta all'Arenile, sotto le stelle di Bagnoli, nel 2006.

Riley Ben King, il Blues Boy, non aveva mai appeso la chitarra al chiodo, Lucille non si sarebbe fatta trattare in questo modo. «Non ho alcuna intenzione di smettere. La musica è tutta la mia vita. Non posso certo continuare al ritmo di duecento concerti l’anno. Sarei tentato di chiudere coi tour, ma so di avere delle responsabilità nei confronti del blues: il blues è immortale, ma le radio non lo suonano, le tv non lo trasmettono, mi sa che ci devo pensare ancora io, dal vivo. Chi lo suona, sennò?», ci aveva raccontato in un'intervista.



Oltre che un chitarrista straordinario, un cantante la cui ugola era in diretto contatto con il cuore, il Re sapeva raccontarsi: «Sono nato in una piantagione di cotone dell’Illinois, come tutti lavoravo nei campi e accompagnavo con la chitarra il pastore in chiesa. Quando sono arrivato in città suonavo gospel per strada, ma a Memphis nessuno mi dava un soldo per quelle canzoni religiose: volevano ascoltare i blues. Io glieli ho dati, li avevo imparati da mio cugino Bukka White, e qualcuno finalmente ha sganciato un soldino: altro che re del blues».



La sua chitarra, Lucille - una Gibson 335 - era davvero una compagna di vita: «Vivo bene con lei, ma non sono monogamo: ne ho 46, erano 47, poi una l’ho regalata a Giovanni Paolo II. E sono tutte ”figlie” di quella che avevo nel ’49. Una sera scoppiò una rissa in un locale per via di una donna, una certa Lucille: io scappai fuori, poi tornai indietro di corsa per recuperare il mio strumento. Che da quella notte trovò un nome».



Il suo erede? «Non ho nessun dubbio: Eric Clapton. Slowhand può fare ciò che vuole con la chitarra. Mi sono divertito molto quando abbiamo registrato insieme».



Uomo dalla mille vite e stagioni, B.B. ha suonato con Dylan, Tina Turner, Joe Cocker, Zucchero, Van Morrison, gli U2, i Rolling Stones, Ringo Starr. Ma ricordava particolarmente con piacere l'incontro con gli U2: «Sono straordinariamente talentuosi, giovani e molto ricchi, "When love comes to town" mi ha dato una nuova popolarità, è stata l'unica volta in cui sono stato primo in classifica Ma anche fare musica con Van Morrison, un grande autore, è stato strepitoso».



I suoi maestri? «Blind Lemon Jefferson, lui non è mai stato così ricco come Bono, ma lo avrebbe meritato».

Il segreto della sua longevità? «Non fumo da quando avevo 25 anni. E non bevo. Ma so vivere e voglio vivere a lungo. Il mio lavoro è duro, ma mi riempie di soddisfazioni: partendo dalle piantagioni di cotone sono arrivato a suonare per il Papa e per Pavarotti, le sembra poco?».

Non era poco, e tanto ci ha lasciato - soprattutto nei suoi storici lp - Sua Bluesitudine, anche se bisognerà ricordarlo com'era una volta, non nelle ultime striminzite esibizioni, quando, stanco e seduto, cercava con qualche smorfia e con qualche assolo assassino per feeling più che per tecnica di farsi perdonare lo smalto perduto. Maestro dei giochi di «call and response» (chiamata e risposta), il suo sound all’eco del profondo blues del Mississippi aggiungeva sapori gospel, rock, funky e jazz. Nei suoi assoli il dolore e la carnalità di Blind Lemon Jefferson, T-Bone Walker e Lonnie Johnson scoprivano l’eleganza di Charlie Christian e Eddie Lang. Il suo vibrato ululante accentuava le note, il suo barrito improvviso e in qualche modo indolente era estensione naturale della sua voce e della sua vita, partita dai campi di cotone per approdare ai palcoscenici più importanti del mondo.



«Let the good time roll» intonava la sua Lucille, simbolo della vendetta della musica nera da cui sono nati il jazz, il rock e quasi tutta la musica del Novecento. Ma il suo inno personale restava «The thrill is gone», il suo primo hit: nel 1970 riprese il brano di Ray Hawkins e Rick Darnell imponendolo su tutti i mercati (quindicesimo nella classifica pop, terzo in quella r’n’b) e diventando così il simbolo vivente della musica del diavolo.

Aveva sgobbato nelle piantagioni per il padrone bianco, aveva conosciuto il prezzo della segregazione razziale, si era cibato di orecchie fritte di maiale come se fossero l'unica ghiottoneria possibile, per tutti i rocker era come un padre putativo ancor prima che un anziamo monarca. Tante volte aveva tentato di smettere di suonare, su consiglio, anzi ordine, del medico, poi aveva deciso di continuare ad andare in tour almeno in America: un po' per questioni economiche, un po' perché non sapeva vivere altrimenti.



L'ultima volta a Bagnoli era davvero apparso stanco, l'esibizione a tratti fu impietosa. Lì dove soffiava il vento e un tempo soffiavano gli altiforni vedemmo spegnersi un altro fuoco. Forse era già spento da tempo, ma nulla toglierà mai gloria alla leggenda di Riley King, il ragazzo di Itta Bena che divenne B.B, ovvero il blues boy per eccellenza. È dura fare il ragazzo blues quando si cresce, si diventa ricchi, famosi e venerati, quando tutti ti chiedono di replicare quello che hai fatto da giovane, ma anche di rinnovarti, senza cambiare, però.



Il re è andato, il re è morto, il re è per sempre nei nostri cuori e nelle nostre orecchie. Massimo rispetto per B.B.King: il trono del blues è destinato a restare vacante a lungo, anzi per sempre.