Bruce Springsteen, Confessioni di un settantenne nato per correre e per cantare

Bruce Springsteen, Confessioni di un settantenne nato per correre e per cantare
di Enzo Gentile
Mercoledì 29 Maggio 2019, 11:00
4 Minuti di Lettura
Il 23 settembre saranno settant'anni e per festeggiare la scadenza il massimo rocker in circolazione ha pensato a un regalo speciale, ma anche spiazzante per il popolo dei suoi aficionados: Bruce Springsteen il 14 giugno pubblica il suo nuovo album di inediti, «Western stars», un pacchetto di canzoni che prendono in contropiede anche i fans più accaniti e fidelizzati. Lungo tredici brani - due dei quali già entrati in circolazione, il primo singolo «Hello Sunshine» e il secondo, appena distribuito, «There goes my miracle» - l'uomo nato per correre si mostra con volti finora poco (il folksinger puro e duro) o mai (il crooner nostalgico) concessi in pubblico, ripassando i temi della più solenne e tipica cultura americana a stelle e strisce.
 
Nei cinquanta minuti del disco ricorrono il mito del viaggio, Springsteen torna a scrivere ballate on the road con tono dolente, scuro, introspettivo. Lo spirito del guerriero riposa come la brace sotto la cenere, e a soffiare sul fuoco viene l'annuncio per l'autunno di ulteriori registrazioni con la E Street Band di Little Steven and friends, cui seguirà un presumibile tour mondiale nel 2020. Intanto in «Western stars» Springsteen si gioca la carta più intimista, in un modus quasi confidenziale, che ricorda in qualche modo la sbornia sinatriana del maestro - suo e di tutti - Bob Dylan. Bandite sono le chitarre sferraglianti e la più radicale elettricità, mentre il collante e fil rouge di tutte le composizioni, prodotte dallo stesso Bruce insieme a Ron Aniello, risultano le sezioni d'archi, i ponderosi arrangiamenti orchestrali, l'accompagnamento ad ampio respiro di storie distribuite tra la grande provincia americana, distese di cielo e di polvere, locali, cavalli e tanti mezzi di locomozione, come si conviene a un lavoro viaggiante.

Registrato principalmente nello studio casalingo, in New Jersey, là dove affondano le sue radici (come racconta il documentario appena arrivato nei cinema, «Asbury Park - Lotta, redenzione e rock'n'roll»), l'album alle orecchie dei devoti suonerà molto diverso da opere che comunque già in passato avevano spostato l'asse espressivo del songwriter: da un lato gli acustici, intimisti, intensissimi «Nebraska» e «The ghost of Tom Joad»; dall'altro «Human touch» e «Magic» non a sbaglio considerati come gli esempi della sua deriva più pop.

Qui si respira un'aria diversa, con richiami (e implicito tributo) a certe pagine di Roy Orbison, di Phil Spector, di Lee Hazlewood, di una certa fase pop di Scott Walker: «Questo è un ritorno alle mie registrazioni da solista con le canzoni ispirate a personaggi e con arrangiamenti orchestrali cinematici», ha spiegato il rocker, che nei giorni scorsi si è concesso una vacanza romana con la moglie Patti Scialfa per tifare per la figlia Jessica Rae a un concorso ippico che la vedeva impegnata: «È come uno scrigno pieno di gioielli».

Ad affiancarlo in questo esperimento che potrebbe lasciare tiepide le legioni di fans più propense ad acclamare i suoi materiali più sudati e muscolari o quelli più ribelli e sociali, troviamo appunto la Scialfa alle voci, e alcuni compagni di tanti dischi e tournèe, David Sancious (il primo tastierista della E Street Band: ai tempi di Asbury Park abitava all'incrocio tra 10th Avenue ed E Street), Charlie Giordano, Soozie Tyrrell.

L'abbrivio appare decisamente convincente, con «Hitch hikin'», ritratto di un uomo che viaggia facendo l'autostop, con inizio acustico e minimale che dalla seconda strofa è arricchito da un crescendo orchestrale; e «The wayfarer», storia di un viandante che «quando tutti dormono mette le sue ruote sull'autostrada» accompagnato da un gioco di chitarre e archi e un ritmica leggera. La breve «Somewhere North of Nashville» sigla un omaggio alla più classica scuola cantautorale folk-country, con tanto di pedal steel guitar. Altrove, con citazioni cajun come in «Sleepy Joe's cafe» che sembra riportarci ai tempi delle «Seeger sessions», la vena svetta meno ispirata.

Lo Springsteen solista guarda al cinema come ispirazione, a Ennio Morricone e a Jimmy Webb, concede il beneficio del dubbio al Grande Sogno Americano come raccontato nel Grande Romanzo Americano, resta fedele a se stesso nello scrivere versi che sono un affresco collettivo nato dalla somma di singole storie, di singole solitudini. «Drive fast (the stuntman)» è la ballata di uno stuntman acciaccato ma resistente, «Chasing wild horses» prova a togliere dalla mente del protagonista la donna amata, «Sundown» è la cosa più vicina al Boss con la E Street Band. «Stones» racconta un amore tradito dalle bugie e parte come deve ogni blues. «Moonlight motel» chiude il disco e le danze in un triste hotel, dove non basta bere Jack Daniels per dimenticare l'amore che non c'è più.

Il disco pacato di un settantenne, forse. Il lavoro malinconico di un uomo che confessa di aver vissuto, forse. Ma state/stiamo tranquilli: Bruce non appende il fuoco del rock'n'roll al chiodo. Ci vediamo sotto il palco, la prossima volta, forse a Roma, nell'estate 2020, come appena promesso.
© RIPRODUZIONE RISERVATA