L'Eurovision Song Contest al tempo della guerra: Ucraina favorita

L'Eurovision Song Contest al tempo della guerra: Ucraina favorita
di Andrea Spinelli
Domenica 8 Maggio 2022, 23:03 - Ultimo agg. 9 Maggio, 18:22
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Si intitolava «Èl». Ed era un tango. Una delle prime dimostrazioni che quelle dell’«Eurovision song contest» possono anche non essere solo canzonette la dette nell’82 la Spagna, inviando alla «Sanremo europea» in piena guerra delle Falkland la caliente Lucia con un pezzo manifestamente anti-Thatcher e pro-Argentina. Al tempo il mondo era diviso ancora in blocchi e quello sovietico replicava allo slancio europeista della manifestazione canora principe del Vecchio Continente con un «Intervision» organizzato tra i membri del Patto di Varsavia perché «il kitsch è l’ideale estetico di tutti gli uomini, i partiti e i movimenti politici», come scriveva Milian Kundera. Lo sanno bene gli organizzatori della megakermesse che sabato al PalaOlimpico di Torino e in diretta su Raiuno incoronerà i successori dei Måneskin sul trono (canoro) d’Europa, alle prese da sempre con le crisi di una geopolitica che non risparmia niente e nessuno. 

L’allargamento ad Est della manifestazione, con l’arrivo nel ‘94 di un nuovo ingombrante protagonista come la Russia, ha inevitabilmente innalzato le tensioni, complicando quel delicato sistema di equilibri già messo alla prova dall’eterna questione palestinese (per la presenza di Israele), da quella cipriota, dalle frizioni continue tra Armenia e Azerbaigian. Se già dal ’64 la Jugoslavia di Tito aveva scelto l’«Eurovision» per ribadire lo strappo con Mosca, la caduta del Muro ha definitivamente cambiato volto alla rassegna avviata nel 1956 a Losanna dall’Uer, l’Unione Europea di Radiodiffusione (o Ebu, European Broadcasting Union, per dirla in inglese) col nome di «Grand-prix eurovision de la chanson européenne». Una prima edizione ristretta a Francia, Svizzera, Italia, Germania, Olanda, Belgio e Lussemburgo vinta dall’elvetica Lys Assia con «Refrain». Le divisioni all’interno dell’ex blocco sovietico hanno iniziato a preoccupare nel 2009, quando 43 cittadini azeri senza alcun precedente penale furono convocati al ministero per la Sicurezza nazionale di Baku per essere interrogati dalla polizia con l’accusa di comportamento antipatriottico perché dai tabulati telefonici forniti dalla Telia Company risultava avessero votato per la canzone armena. Quell’anno l’«Eurovision» s’era svolto a Mosca, organizzato con la supervisione di Putin in persona. Era stato proprio il presidente, infatti, uno dei primi a capire l’utilità della kermesse quale strumento di soft power per costruirsi un’immagine di moderna nazione europea; fino ad allora la Russia in gara aveva vivacchiato, andando incontro anche a tremende delusioni come il deprimente quindicesimo posto nel ’97 del monumento nazionale Alla Pugačëva. Nel Duemila, con adeguati investimenti, l’adozione dell’inglese e un’attenta regia, la musica era cambiata spingendo la tartara Alsou fino alla piazza d’onore. Il primo passo di un percorso che otto anni dopo avrebbe portato Dilma Bilan alla vittoria. Erano i tempi della guerra con la Georgia e, come riportato pure da un paio di pubblicazioni sul tema quali Capire l’Eurovision. Tra musica e geopolitica di Giacomo Vitali ed Eurovision Song Contest. Una storia europea di Dean Vulentic, la Russia era riuscita ad ottenere il ritiro dei rappresentanti di Tblisi, il quartetto Stephane & 3G, con un pezzo dal titolo galeotto: «We don’t wanna put in». 

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Una riprova della considerazione che il Cremlino ha per la manifestazione si è avuta nel 2013 quando il ministro degli esteri Sergej Lavrov, durante un incontro ufficiale, ha manifestato al suo omologo azero il risentimento per il fatto che la giuria eurovisiva dell’Azrbaigian non avesse assegnato punti alla canzone della connazionale Dina Garipova nonostante quella di Mosca avesse riconosciuto il massimo al rappresentante di Baku, Farid Mammadov. L’anno successivo l’invasione della Crimea ha fatto precipitare le cose e a farne le spese sono state le sorelle Anastasija e Maria Tolmačëvy subissate di fischi in quel di Copenhagen; protesta tanto clamosa da indurre gli organizzatori nel 2015, a Vienna, a mettere mano alla tecnologia per ridurre l’impatto audio della Stadthalle durante l’esibizione di Polina Gagarina. La vera doccia fredda per la Russia è arrivata, però, nel 2016 quando al Globe di Stoccolma il quotatissimo Sergey Lazarev ha trionfato al televoto, ma poi s’è ritrovato terzo perché le giurie hanno ribaltato l’esito del giudizio popolare assegnando il microfono di cristallo all’ucraina Jamala con «1944», canzone sulle persecuzioni dei tartari della sua terra ad opera di Stalin. Livida di rabbia, la delegazione moscovita ha parlato di ribaltone orchestrato dagli occidentali, tentando di vendicarsi nel 2017 inviando a Kiev la giovane Julija Samojlova, costretta alla sedia a rotelle da un’artrofia muscolare spinale.

Una manifesta forzatura perché, essendosi esibita in Ucraina, era evidente che Julija si sarebbe vista vietare l’ingresso nel paese. Ma la tv russa aveva insistito lo stesso contando sulla ricaduta negativa che il no ad una disabile avrebbe alimentato sul paese ospitante. Ripresentata l’edizione successiva a Lisbona, la Samojlova è finita fuori già in semifinale.  

Quest’anno, fra le conseguenze della «operazione speciale» avviata da Putin c’è stata pure l’estromissione della Russia dall’«Eurovision». Nonostante il divampare dell’offensiva, l’Uer lì per lì ha cercato di evitare la misura, ma la richiesta di espulsione avanzata da Kiev e sostenuta dalla Finlandia assieme alle repubbliche baltiche, l’ha messa con le spalle al muro. E ora i bookmaker danno l’Ucraina (Kalush Orchestra) favorita soprattutto per motivi di solidarietà, tra Mahmood & Blanco (Italia) e Achille Lauro (San Marino).

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Su Raiuno si comincia domani, con la prima semifinale, si continua con la seconda giovedì, finalissima sabato. Conducono Laura Pausini, Mika e Alessandro Cattelan, l’Italia con «Brividi» entra in gara direttamente sabato, come tutto il club dei Big 5, i padri fondatori: Alvan con Ahez per la Francia, Malik Harris per la Germania, Chanel per la Spagna, Sam Ryder per il Regno Unito. Tra le incognite di questa vigilia ci sono i dubbi su come si divideranno, e si riassembleranno gli schieramenti tradizionali: quello dell’Est oggi diviso dalla guerra, quello baltico, quello mediterraneo. Qui conta l’esibizione più della canzone, si sa, il colpo d’occhio, magari trash, più della qualità (persino più che a Sanremo), ma poi si vince soprattutto per ragioni di geopolitica. Vedremo. «Brividi» è stata intepretata dalla stampa che segue il circo dell’«Esc» come un inno all’amore gay: su Spotify si avvicina agli 80 milioni di ascolti, mentre «Stefania» della Kalush Orchestra si ferma a 6,2. Ma, appunto, non sono solo canzonette.
 

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