Speranza: «L'urlo rabbioso di CaserTexas»

Speranza, 2020
Speranza, 2020
di Federico Vacalebre
Giovedì 29 Ottobre 2020, 12:10 - Ultimo agg. 13:29
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Pur preavvertiti dal suo primo hit underground, «Chiavt a mammt», l'ascolto dell'album di debutto di Speranza, «L'ultimo a morire», già terzo in classifica, lascia basiti: è tosto, aggressivo e urlato, anzi «growlato», come certo slam death metal (avete presente i Devourment?) o «screamato» come certo grindcore e hardcore punk. Il suo ringhio sfrenato, crudo, veloce, adagiato sui beat di produttori come Don Joe, Night Skinny e Crookers, è un assalto difensivo, nasconde un problema di balbuzie e confessa una vita di banlieu. Il suo flow è uno spray al peperoncino che ha conquistato la Sugar, che pubblica questo album-sparo nella notte, e la Rizzoli, che il 17 novembre pubblicherà la sua autobiografia, stesso titolo del disco.
 

Speranza, «L'ultimo a morire»: in realtà ti chiami Ugo Scicolone, 34 anni. Parente di donna Sophia?
«Sì, e mi piacerebbe mi tenesse presente nel suo testamento».
Facciamo i seri, dai.
«Non l'ho mai incontrata, ma il mio trisnonno arrivò dalla Sicilia a Napoli ed ebbe due figli maschi: uno andò a Pozzuoli, l'altro a Caserta. Discendiamo dallo stesso avo».
Ecco, Caserta. Tu sei franco-casertano?
«Sono nato in Francia, vicino alla frontiera tedesca, da padre casertano, che mi ha portato qui da piccolo. Poi sono tornato oltralpe fino alla fine delle scuole, quindi sono tornato qui».
A Caserta, anzi a «CaserTexas», come l'hai ribattezzata nel titolo di un brano. Perché?.
«Perché qui più che Gomorra sembra Austin, o Springfield, la città dei Simpsons: tristezza, fucili in casa, provincia dove ho trovato ad attendermi un lavoro da muratore, una dipendenza dall'alcol, degli amici che ho imparato ad evitare, anche per disintossicarmi. Anche Spall a sott 4 è dedicato a Caserta, volevo reclamare in qualche modo, sia pur spaccone, il nostro primato, la nostra identità: nella scena campana, che spacca, Napoli è capitale, la terza in Italia dopo Milano e Roma, Salerno ha i suoi alfieri, ora esiste anche il grido di CaserTexas».
Leviamoci il dente. Pentito di un pezzo discusso come «Chiavt a mammt»?
«Sì, era un urlo e un gioco, l'offesa che condividi con l'amico, che ti chiama ricchione per ridere. Ma ha finito per diventare un'etichetta che non so come togliermi da dosso».
Gangsta rap o no? Lì te la prendevi con infami e traditori, non sembrano proprio le posizioni di don Matteo. Nel disco c'è anche «Calibro 9».
«Ho vissuto per strada, rappo le cose che ho visto, che non erano dei pranzi di gala. Ma se devo scegliere preferisco Don Matteo alla serie tratta da Saviano».
Poi c'è un pezzo che si chiama «Puttana***».
«Spero che quegli asterischi spieghino quello che voglio dire, li uso come se fossero delle virgolette. Le parole che volano sono quelle di strada, il rap è machista, ma io no».
E, tra birra e tavernello, chiedi attenzione per il dramma di Gaza e per il popolo rom.
«Dei palestinesi il mondo si sta dimenticando. Con i gitani ho vissuto, conosco e uso anche la loro lingua, oltre al nostro dialetto ed al francese. Il singolo Fendt caravan è nato sentendo alcuni di loro discutere di marche di roulotte: parlano del loro piccolo mondo, dei loro status symbol».
Tra le collaborazioni del disco (Guè Pequeno, Massimo Pericolo, Kofs) l'unico che davvero regge il confronto con il tuo stile urticante è Rocco Gitano.
«Lui è più napoletano di me e te, eppure lo chiamano zingaro».
Da ragazzino trovò il suo primo successo veteromelodico con «'O zingariello».
«Rocco è cresciuto, il razzismo verso i rom è rimasto lo stesso». 

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