Massimo Ranieri compie 70 anni: «Dovevo festeggiare a Napoli e in scena, ci rifaremo presto»

Massimo Ranieri compie 70 anni: «Dovevo festeggiare a Napoli e in scena, ci rifaremo presto»
di Federico Vacalebre
Lunedì 3 Maggio 2021, 10:30 - Ultimo agg. 14:03
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Il vero problema è capire chi compie oggi 70 anni: Giovanni Calone o Massimo Ranieri? «Anagraficamente dovrei dirti Giovanni, è lui che è nato il 3 maggio del 1951 al Palonnetto di Santa Lucia. Massimo è più giovane, il nome d'arte arrivò soltanto a metà anni 60. Però forse è lui il più vecchio, anche se fa il giovane in scena, dove continua a fare capriole e spacconate varie, ugola compresa», racconta, divertito, il cantattore partenopeo.

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E con Gianni Rock come la mettiamo, allora?
«Lui è un fantasma, ormai: ha vissuto solo due anni, eppure qualcuno si ricorda ancora di lui, cioè di me». 

Eri ancora Giovanni Calone e facevi il ragazzo del bar.
«Famiglia umile, molto umile, ma onesta, racconterà poi anche per me Massimo Troisi.

Quinto degli otto figli di Amabile Giuseppina e Calone Umberto, davo una mano come potevo: ho fatto lo strillone, il garzone, il fattorino. Ma si era sparsa la voce che avessi una bella voce, i miei cugini mi costringevano a cantare al Castel dell'Ovo mentre loro si tuffavano per gli spiccioli dei turisti e dei clienti dei ristoranti: canto perché non so nuotare, ormai lo sanno tutti, ho trasformato la mia storia in un tormentone. E anche al bar mi facevano cantare. Mi notò Gianni Aterrano, pianista, arrangiatore, compositore, produttore».

Ti propose 200.000 lire per un contratto discografico.
«Ma non era una proposta, era un invito a nozze. In famiglia nessuno di noi aveva mai visto quella cifra». 

Così, a 13 anni, ti trovasti supporter di Sergio Bruni all'Academy di Brooklyn. Si dice che il maestro non gradì molto uscire dopo tutti gli applausi che avevi ricevuto.
«Ero un bambinetto, per farmi vedere dovevo salire su una sedia, era facile impressionare il pubblico».

Ma l'impressione era veritiera. Per Aterranno diventasti Gianni Rock.
«Calone era troppo verace, proletario. Poi arrivò Enrico Polito, che per me scriverà Rose rosse, Vent'anni, Via del conservatorio ed Erba di casa mia, e mi ribattezzò Ranieri, solo Ranieri, pensando al principe di Monaco, altro che Pallonetto. Vennero fuori un paio di 45 giri così, poi, finalmente, nel fatidico 68, divenni Massimo Ranieri».

Il successo fu immediato, travolgente. Ugola forte e volto da scugnizzo educato, simpatia, melodie e versi entrati nel dna nazionale.
«Ho avuto fortuna, hanno preso un ragazzetto e gli hanno dato delle canzoni che, in qualche modo, non erano più grandi di lui, avevano dentro la sua energia, la sua passione, la sua giovinezza sfacciata, spudorata. Ecco, quei brani, quelle canzonette, sono più giovani di Giovanni, di Gianni, di Massimo: loro non invecchiano, restano fotografie di un periodo spensierato, non solo per me, ma per l'Italia tutta».

Formidabili quegli anni, eppure fermasti il mondo per dire: voglio scendere.
«Era una giostra: Cantagiro, Canzonissima, Sanremo... Dopo i 45 giri arrivarono gli lp, ma, soprattutto, arrivò Massimo Bolognini: mi fece recitare in Metello e il cinema mi rapì. Avevo 18 anni, mi sembrava di avere il mondo in mano, poi nel 1980 incontrai il maestro e... capii che dovevo ancora imparare come si faceva, che cosa voleva dire recitare».

Il maestro è Giorgio Strehler.
«Ne ho avuti tanti di maestri, ma lui è stato o masto, il maestrone, quello che mi ha cambiato la vita, la strada, la carriera, il modo di intendere il mio lavoro».

Mettesti da parte la canzone per il teatro, la meno redditizia delle arti legate allo spettacolo.
«Ma la più vera, anche se la più finta per copione. Il Brecht di Giorgio divenne il mio vangelo, ne uscii cambiato. Dopo un po' non ci fu più spazio per la canzone».

Nonostante «Perdere l'amore» avesse sbancato nel Sanremo 88.
«Quando la incisi al pianoforte c'era Sergio Conforti, vero nome di Rocco Tanica, tastierista degli Elio e le Storie Tese. e il sax era di Paolo Panigada, alias Feiez, anche lui futuro componente degli Elii. L'arrangiamento era di Lucio Fabbri».

Per lungo tempo hai cantato solo nei musical o nei dischi, poi un vecchio amore ti ha spinto a tornare al vecchio amore.
«È vero. Avevo cantato la mia Napoli solo di sfuggita, dopo l'incontro con Anna Magnani. Così, insieme a un guru come Mauro Pagani spogliammo i classici dalle incrostazioni retoriche ed oleografiche e li riconsegnammo alla musica del mondo, nel nome di contaminazioni che non erano posticce».

«Oggi e dimane» (2001), «Nun è acqua» (2003) e «Accussì grande» (2005) mostrano un nuovo canone possibile per Bovio e Di Giacomo, E.A. Mario e Carosone. Da quel momento non ti sei fermato più: dischi e tour da un lato, show televisivi e fiction dall'altro, e ancora il cinema, e ancora il teatro, canoro e non.
«Gianni si era accorto di stare invecchiando, Massimo non voleva invecchiare. Tutti e due volevano e vogliono continuare a fare il mestiere più bello del mondo, dare al pubblico fantasie, melodie, poesie, storie... Cantanti e attori sono aedi, piccoli Omero che, soprattutto in un periodo di pandemia come questo, riempiono un mondo spesso brutto, sporco e cattivo di grandi emozioni, di grande bellezza».

Dopo la Napoli riletta in chiave jazz/night dei due volumi di «Malia» nelle edicole e nei negozi di dischi sono tornati i tuoi vecchi lp, alcuni forse non erano mai usciti su cd.
«Mi fanno tenerezza, come mi fa tenerezza oggi guardare le foto di quel bambino che divenne cantante e poi attore. Se qualcuno gli avesse detto che Charles Aznavour e Gino Vannelli avrebbero scritto per lui avrebbe detto: Aznacosa? Vannellichi? Ho fatto il regista al San Carlo, ho cantato all'Olympia... Scaparro, Lelouch, Maselli, Turturro, Patroni Griffi, Valli-De Lullo, Garinei e Giovannini... quanta grazia, quanti incontri, quanta nostalgia...».

Allora il neosettantenne Ranieri è nostalgico?
«No, pensa al futuro, ma non può non rimpiangere giganti dello spettacolo e un tempo in cui canzoni e film non venivano digerite in poche settimane, erano fatte per durare. E, soprattutto, in cui il teatro era al centro della trasmissione della cultura, dell'arte, non un affare per pochi eletti».

Come ti festeggi?
«Dovevo farlo in scena, a Napoli, al Diana da giovedì con la nuova versione di Sogno e son desto 500, dal numero delle repliche a cui siamo arrivati. Tutto annullato, tre settimane di festa sarebbero state, come potevo festeggiare meglio di così? La pandemia ci ha tolto tanto, troppo, ma ci rifaremo. Parola di Giovanni e di Massimo». 

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