Sanremo 2021, la pagella dei 26 cantanti in gara: più rock che rap, il festival sorprende così

Sanremo 2021, la pagella dei 26 cantanti in gara: più rock che rap, il festival sorprende così
di Federico Vacalebre
Mercoledì 10 Febbraio 2021, 20:03 - Ultimo agg. 11 Febbraio, 16:38
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Come ogni anno, arriva il momento del primo, ed unico per ora, ascolto delle canzoni dei big di Sanremo 2021. Ventisei brani tutti in una volta, senza nessuna possibilità di ritornare su questo o quel passaggio, con Amadeus che decanta le lodi del suo secondo Festival, complicato non poco dalla pandemia. Come ogni anno, allora, ecco il gioco delle pagelle, come commento a caldo, come primissima, parzialissima, personalissima, valutazione. Nel totale suoni giovani, testi vecchi, tanto amore che non fa però più rima con cuore, più rock che rap, più ritmo che melodia, ben poca poesia e quasi nessuna concessione alla nostra quotidianità in mascherina, se si esclude un accenno di Willie Peyote. Due sono i brani firmati (anche) da Pacifico, due da Mahmood (uno, quello di Noemi, con lo pseudonimo di Tattroli), due quelli da Dario Faini (Noemi e Renga) e tre da Dardust (Irama, La Rappresentante di Lista e Madame), che è l'alias di Faini quando è più elettronico che pop.

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6 Aiello: «Ora» 

Prima canzone farmaceutica: «Quell notte io e te/ sesso Ibuprofene/ 13 ore in un letto/ a festeggiare il mio santo». Lui è uno stronzo confesso, ci tenava a mostrarsi "come un drago nel letto", lei ha un compagno, una bambina... Indie sound largo, cantabile, a tratti distorto. 

4 Annalisa: «Dieci»

Dispiace dirlo, perché lei è simpatica, ma in un Festival extralarge è la prima canzone di cui si poteva fare a meno. Canzone dell'ultima volta, delle ultime dieci volte, del repertorio che Nali ancora non ha trovato. 

5 Arisa: «Potevi fare di più»

Mai titolo fu più profetico, ma va rivolto all'interprete più che a Gigi D'Alessio che racconta al femminile la fine di un amore. Lei torna a casa e le fa festa solamente il cane, lui non la nota nè vestita nè nuda e da sopra il divano nulla più lo schioda: è finita, meglio cancellare foto e video dal cellulare, a che serve una rosa quando è piena di spine. Ma la voce non decolla mai. 

5 Malika Ayane: «Ti piaci così»

Pacifico le dà una mano nel testo, il ritmo è sostenuto, radiofonico e streamizzabile (oddio, che neologismo), la voce è una delle più belle del Festival, ma, a parte quello, c'è poco di memorabile.

5 Orietta Berti: «Quando ti sei innamorato» 

Orgogliosamente veteromelodica, fieramente melodrammatica, con sfoggio di voce, nonostante i 77 anni, antica certo, ma anche per questo diversa dall'omologazione d'ugole di questo mucchio selvaggio, e l'omaggio all'eterno amore Osvaldo. Firmano i napoletani Francesco Boccia e Tommy Esposito con Marco Rettani.

6 Bugo: «E invece si»

Una ballata lo fi rock, più Celentano (citato nel testo, come Ronaldo) che Vasco, con il paradiso nel supermercato e Ringo Star che non è mai stato così tanto citato come negli ultimi Festival tra versi inquetanti: «Voglio immaginarmi che anche un dittatore s'innamora vomita poi si commuove». Certo, ma volessimo assolvere Mussolini o Somoza per questo?

8 Colapesce e Dimartino: «Musica leggerissima»

Una ballatona western mediterranea battistiana sul potere del pop, un elogio della canzone come utensile sentimentale quotidiano, tra chitarre e fischi morriconiani (sarà il sommo Ennio «il maestro» che «è andato via»?)

6 Coma_Cose: «Fiamme negli occhi»

Prima canta lei, che se ne fotte degli altri, poi lui, che grattugia le lacrime dell'amata per salarci la pasta.

Ma sono una coppia anche nella vita, come congiunti forse all'Ariston si potrebbero persino toccare sul palco, così foglia fa rima con California (?) e l'amore brucerà come un basilico al sole di un balcone italiano. Melodia rumorosa fedele alle leggi indie pop.

5,5, Gio Evan: «Arnica»

Canzone omeopatica. Un talkin' in crescendo come si usa ormai, il poeta indie sollecita la sensibilità delle sue ascoltatrici, c'è persino lo sguardo terrorizzato della madre quando pensava che lui ormai non ce la potesse fare. Tutta la vita in un pezzo solo, «i viaggi con chi ami, sì, ma i sogni a puttane».

8 Extraliscio con Davide Toffolo: «Bianca luce nera» 

Il liscio postmoderno come folk-punk, con una mano di Pacifico per mettere in ordine il testo (che resta misterioso ed annuncia una messinscena importante) e l'incontro di Raoul Casadei con Mannarino e i Los Lobos, anzi, a sentire i fiati, di suo zio Secondo con un Goran Bregovic o uno Shane McGowan armato di orchestrina mariachi. 

4,5 Fasma: «Parlami»

Secondo tra i giovani l'anno scorso e promosso subito big, il trapper se la prende con il mondo bastardo che non si può cambiare, «anche con il posto rubi il posto di un altro». Il suono (facile e streamizzabile, ormai il reato linguistico è commesso) della generazione precarissima che però cerca la salvezza come i vecchi trottolini amorosi.

6 Fulminacci: «Santa Marinella»

Roma come città di mare, un appuntamento d'amore al reparto superalcolici, il desiderio di diventare deficiente, di bussare ai citofoni e scappare via, di sentirsi dire che tutto va bene. Una chitarra cantautorale e tanti archi (troppi) per un Premio Tenco che cerca di non passare inosservato al Festival, ma in passato ha fatto di meglio. 

7 Gaia: «Cuore amaro» 

Pop sincretista, postmoderno, che tiene insieme echi, anzi lacerti, di flamenco, di Oriente, di Brasile, con sorprendente consapevolezza urban. Fosse lei la Rosalia de noantri? 

7 Max Gazzè: «Il farmacista»

Un grido iniziale, «Si può fare»; autocitazione («Una musica può fare») o omaggio a «Frankenstein junior»? Poi, si saltella come d'uopo nella tradizione maxgazziana, con tanto di accompagnamento fantasmatico di theremin. Canzone allopatica e omeopatica, filastrocca (non)sense sulla cura di un male insieme amoroso, fisico ed esistenziale. Pigliate 'na pastiglia? Per dovere di cronaca: il farmacista del titolo finirà in camicia di forza. 

7 Ghemon: «Momento perfetto» 

Una sorpresa jazzata, quasi l'hip hop avesse ritrovato memoria delle sue origini nella great american black music. «Se non avveri i tuoi desideri finisci a vivere di ricordi, ma nel momento in cui te ne accorgi qualcun altro ha il tuo posto e i tuoi soldi»: l'ex depresso Giovanni Luca Picariello da Avellino sente che è l'ora sua e di sicuro ha la canzone dalla sua parte. 

5 Irama: «La genesi del tuo colore»

Di tutto un pop (con una mano da Dardust): indie, rap, melodia, falsetto, testo poco originale («Colora l'anima con una lacrima»), sintonia con il gusto giovanile del momento. 

6 La Rappresentante di Lista: «Amare»

Il titolo non è originalissimo, non manca l'onnipresente Dardust's touch (siamo dalle parti di una Pausini in salsa digitale), ma la voce vola bene e il ritmo si prepara a conquistare radio e web con il suo tormentone: «Amare senza avete tanto/, urlare dopo avere pianto, parlare senza avere niente da dire», con l'ultimo verso che sembra la migliore recensione possibile ai testi del Sanremo 2021, rarissime eccezioni escluse.

6 Lo Stato Sociale: «Combat pop»

Poveri Clash, finiti in un testo della terra dei cachi, sia pur in compagnia di Guccini («A canzoni non si fan rivoluzioni») e un Troisi riletto («credevi fosse amore invece era un coglione»). Non c'è più il sano punk di una volta, sembra dire l'ensemble bolognese, sospeso tra un rocn'n'rolla bennatiano e un joca jouer fuori tempo massimo: «Ma che senso ha vestirsi da rockstar, fare canzoni pop/per vendere la pubblicità?».

6 Madame: «Voce»

Di nuovo il tocco elettronico di Dardust, una trap obliqua per la più giovane dei concorrenti, 18 anni, che parla con la propria voce in quella che potrebbe invece sembrare una love story lesbo. 

7 Maneskin: «Zitti e buoni» 

I rockettari dicono parolacce (cazzo, coglioni), frequentano «gente strana tipo spacciatori, si scusano con la mamma perché stanno fuori di testa ma diverso da loro». Tutti clichet, certo, ma il suono è tosto, tra Nirvana e Rage Against the Machine. E il quartetto suona credibile. 

5,5 Ermal Meta: «Un milione di cose da dirti»

Sembrerebbe una canzone d'amore per una figlia più che per una compagna: il tuo viaggio io, la mia stazione tu, cuore a sonagli io, occhi a fanale tu. Classicamente cantautorale, ma senza spunti.

5,5 Francesca Michelin e Fedez: «Chiamami per nome»

Con un piccolo aiuto da Mahmood: mille, fa rima con spille e con pelle, sola con gola. Il classico duetto sanremese aggiornato in salsa Ferragnez: «In ascensore spreco un segno delle croce e quindi? So bene come dare il peggio, non darmi consigli. Cerco un veleno che non mi scenda mai. Ho un angelo custode sadico». Le radio non ci lasceranno scampo, sono loro due i favoriti per la vittoria.

6 Noemi: «Glicine» 

Nuova vocalità, e staff, non solo compositivo, non solo nuovo look. Una splendida voce che ha scoperto lo studio e le possibilità di osare anche diversamente. Il glicine ha radici forti e se si attorciglia può spezzare anche il ferro, come la nuova Noemi, poco importa che il testo sia poca roba. 

5 Random: «Torno a te»

Il ritorno al primo amore come ripartenza, come bisogno di essere vergini dopo la pandemia che ci ha chiuso dentro, ha chiuso i cuori, ha spento i nostri ardori, ha rotto gli amori. Il diciannovenne di Portici, fattosi notare con il rap, è, con la Berti, la proposta più classicamente sanremese. Melodico, con una sua giovanile freschezza.

5 Francesco Renga: «Quando trovo te» 

Casalino e Faini dietro le quinte, una delle voci più belle del Festival, corposa, carnosa. Però la canzone si incasina, tiene insieme cose e mood diversi, archi ed accelerazioni ritmiche. 

8 Willie Peyote: «Mai dire mai (La Locura)»

Regolamento di conti tra emergenti? Nell'Italia grande sit-com, nel Sanremo giovanilistico «sta roba che 5 anni fa era già vecchia ora sembra avanguardia e la chiamano it-pop,, le major ti fanno un contratto se azzecchi il balletto e fai boom su Tik Tok». Nel paese delle musichette mentre fuori ce la morte, il j'accuse ritmatissimo di Willie Peyote sarebbe piaciuto a Enzo Jannacci e anche a Rino Gaetano: «Vince la merda se a forza di ridere riesce a sembrare credibile». E poi: «Non ho capito in che modo twerkare vuol dire lottare con il patriarcato». Infine, l'unico accenne del mucchio selvaggio al Covid-19: «Riapriamo gli stadi ma non teatri nè live». Ps. Il sottotitolo è un omaggio alla serie cult: «Boris». 

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