Sanremo, la terza dose: la lunga notte del pop tra Drusilla e Saviano

Sanremo, la terza dose: la lunga notte del pop tra Drusilla e Saviano
di Federico Vacalebre
Venerdì 4 Febbraio 2022, 01:48 - Ultimo agg. 10:45
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Sanremo

Stavolta l’inizio è dedicato a Mattarella, sulle note di «Grande, grande, grande», canzone che Mina aveva in scaletta nel suo concerto d’addio del 23 agosto 1978 alla Bussoladomani di Viareggio: in platea c’era anche il futuro presidente, insieme alla moglie Marisa e al fratello Piersanti. 
Ma la terza dose del Sanremo 2022 è un’overdose di 25 canzoni, senza nemmeno un Fiorello o uno Zalone a diluire l’eccesso sonoro e il rischio cacofonico. Sarà un caso, ma stavolta Amadeus ha al fianco una vera co-conduttrice.

Nella prima serata Ornella Muti si è limitata ad una inutile comparsata, nella seconda Lorella Cesarini, oltre al suo sacrosanto monologo antirazzista, ha fatto ben poco.

Drusilla Foer, personaggio en travesti creato dall’estro di Gianluca Gori, invece è qui per fare spettacolo, perché sa fare spettacolo, è a suo agio sui palcoscenici e si vede. Non è questione di sesso, di gender, di dibattiti sui diritti (sacrosanti) da reclamare, ma di «meritocrazia», come la definisce lei, un «personaggino» (è il suo intercalare) che vorrebbe «anche un papato al femminile, non solo una presidenza». Così se il copione - vabbè, diciamo il canovaccio - prevede che lei debba far finta di cadere dalle nuvole quando capisce che Amadeus vuole farle fare «solo» la valletta, lei sa reggere la parte con ironia: «Ma allora mi mettevo scosciata, ho anche il tatuaggio di un koala proprio qui», scherza rivolgendosi ad Amadeus, anzi Amedeo, come lo chiama lei, come si chiama all’anagrafe. 

Poi, tra una svallettata e un’altra, che qui serve sempre perché ci sono 25 brani da presentare con tutti i loro autori, si concede una gag vestita da Zorro («mi sono travestita per tranquillizzare tutti quelli che hanno paura di un uomo en travesti»), una discesa dalla temutissima scala del Festival, un monologo, una canzone... Quasi un’autocandidatura per l’eventuale Sanremo prossimo venturo senza Amedeo (o con lui solo direttore artistico) ma tutto affidato a donne, come si chiede da più parti.

 

Ad arricchire la serata il miniconcerto in due parti di Cesare Cremonini, tra i rari talenti sinceramente pop della scena italiana e pronto a tornare negli stadi quest’estate, e ancora un monologo, quello di Roberto Saviano che rende omaggio a Falcone e Borsellino, nel trentennale delle stragi di Capaci e via D’Amelio. Al loro coraggio da uomini che hanno sfidato la morte a cui li aveva condannati la mafia. A Rita Atria, che si tolse la vita a 17 anni una settimana dopo la strage di via D’Amelio: cresciuta in una famiglia di mafiosi, aveva deciso di collaborare con gli inquirenti per la fiducia che riponeva in Borsellino, la cui morte le aveva tolto ogni speranza. «Molti di noi non c’erano quando furono uccisi, eppure la loro storia è parte della nostra memoria collettiva. Sono simboli di coraggio. La loro storia è stata quella di chi sceglie pur sapendo di rischiare». Rocco Chinnici, Cesare Terranova, Pietro Scaglione, Antonino Setta, Gaetano Costa, Ciaccio Montalto, Rosario Livatino... Saviano ricorda come si arrivò a quelle stragi, il silenzio in cui prosperava la mafia, la deleggittimazione con cui si erano aggrediti Falcone e Borsellino, «accusati di spettacolarizzare il lavoro dell’antimafia».

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I presunti auto-attentati, gli haters prima dei social, la macchina del fango che li aveva isolati, ma non ha cancellato il loro esempio: «Durante il Sanremo del 1992 davanti alla tv c’era una ragazza, Rita Atria, nascosta in un appartamento di Roma di cui nemmeno sua madre conosceva l’indirizzo». Saviano, ricorda il ruolo, e il coraggio, dei testimoni di giustizia, che non hanno commesso reati, ma hanno scelto di rischiare la propria vita: «Credevano di seppellirti, ma quello che hanno fatto è stato seppellire un seme», diceva il poeta nicaraguense sandinista Ernesto Cardenal. 

Dieci minuti duri, nel teatro che aveva già applaudito una magistrale interpretazione di Massimo Ranieri («Lettera di là dal mare»), che aveva danzato esorcisticamente con Rkomi («Dove si balla») e che danzerà ancora con Ditonellapiaga & Rettore («Chimica») e La Rappresentante di Lista («Ciao ciao»), tris saltellante ed esorcistico di una serata in cui Mahmood&Blanco strappano «Brividi» ed applausi, in cui la vocalità di Elisa brilla in «O forse sei tu», in cui Noemi ed Emma inseguono un nuovo corso, come Gianni Morandi che con la grinta di un vero higlander che strappa una standing ovation alla platea.

Achille Lauro (senza «autobattesimo», ma con i pantaloni sbottonati a «minacciare» di ripetere un famoso gesto di Jim Morrison), Rkomi, Sangiovanni e Aka 7even si preparano ad invadere l’etere, le piattaforme, l’immaginario giovanile. Michele Bravi fa crescere la sua «Inferno dei fiori» con una partenza drammatica e misurata, poi, come si porta in questo Festival, spreca la strofa nel ritornello, la narrazione originale nell’omologazione al linguaggio più stereotipata, all’«intronata routine del cantar leggero», per dirlo ancora una volta con le parole prestate da Pasquale Panella al Lucio Battisti del dopo-Mogol. A notte fonda la classifica: televoto e giuria demoscopica dicono la loro, si aggiungono al primo verdetto della sala stampa, disegnano la gara che verrà stasera, quando si cambia musica, con le cover di successoni degli anni Sessanta, Settanta, Ottanta e Novanta.
 

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