Sarri conquista palazzo e scudetto:
è il primo napoletano col tricolore

Sarri conquista palazzo e scudetto: è il primo napoletano col tricolore
di Pino Taormina
Lunedì 27 Luglio 2020, 07:00 - Ultimo agg. 10:00
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Chissà se si gli è venuto in mente ieri notte, quando lo scudetto con la Juventus diventava realtà (per i bianconeri è il nono consecutivo) e il match point con la Sampdoria non viene sprecato (2-0 con i gol di Cristiano Ronaldo e di Bernardeschi e un rigore sbagliato da CR7), l'amico del bar che dopo un Sangiovannese-Aglianese finita 0-0 nel lontano 2002 gli urlò: «Tu e quell'altro, se voi due siete allenatori di calcio, allora alleno anche io da domenica prossima». I due tecnici in questione, per intenderci, erano Maurizio Sarri e Massimiliano Allegri. Il tecnico per l'anagrafe nato a Bagnoli ha vinto il primo campionato italiano della sua carriera. Ed è, per la cronaca, il primo napoletano a riuscire in questa impresa. La prima telefonata, nel cuore della notte, è stata al papà Amerigo, 92 anni, che lì a Vaggio ha tirato fino a tardi, in maniera eccezionale, proprio per non perdersi quella faccia di Maurizio al triplice fischio. Composto e misurato, mentre la squadra fa festa, lui sceglie di rientrare da solo nello spogliatoio. È stato il papà a dargli il coraggio di mollare il posto fisso in banca per fargli inseguire la sua passione da precario sulle panchine. Sarri ha vinto. Ha vinto anche in Italia. Ma è stata un'annata dura, complicata, acida. Sempre vissuta sul filo, senza mai un attimo per godersi il momento.

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Sarri si sente perseguitato. Nel senso che si sente poco amato e accettato da questo ambiente che male accetta i rivoluzionari come lui. Rivoluzionari nel senso del pallone. Non è che per questo non dorma la notte, ma da troppi anni non riesce a capire perché debba ogni volta difendersi da qualcosa. Gioca un calcio straordinario, come nei tre anni al Napoli, e si ritrova addosso l'etichetta di quello che però non vince un tubo. Va al Chelsea e poi alla Juventus, mette da parte l'ossessione del bel gioco, del tiki taka, del baricentro alto e basso, della rete dei passaggi, si piega al potere dei fuoriclasse (Hazard e Ronaldo) e così via e si ritrova attaccato perché vince (Europa League e scudetto) ma non gioca bene. E allora insiste con un concetto, quando parla ai suoi fedelissimi, Gianni Picchioni, Massimo Nenci, Marco Ianni, Davide Ranzato e Davide Losi: è meglio non leggere e non sentire nulla perché sennò si va al manicomio,
 
 

Lo sognava di conquistare seduto sulla panchina del Napoli, due anni fa. Arriva al titolo con ritardo, a 61 anni, ma con merito assoluto. La presa del Palazzo è stata lenta, inesorabile. Ed ha dovuto fare i conti con nemici esterni ma anche con un bel po' di tentati ammutinamenti. Su tutto ha pesato il malanno di agosto, quando una polmonite lo ha costretto per tre settimane a interrompere gli allenamenti e a seguire a distanza la squadra. Chiaro che la fase di apprendimento ne ha risentito. Ha dovuto star lì a spiegare per ore e giorni, ore e giorni, che non voleva smantellare la creatura messa su da Allegri, pezzo dopo pezzo. Ma che, solo, dopo anni di scudetti senza show, Agnelli aveva cambiato idea: Lo spettacolo si fa al circo era il motto di Max Allegri. No, la Juventus lo voleva anche in campo. Sognavano a Torino l'estate scorsa l'arrivo di Pep Guardiola e i puritani del tifo bianconero avevano storto il naso all'arrivo di Sarri. D'altronde, era stato per tre anni il simbolo del nemico, l'uomo che aveva minacciato il potere della Juventus, usando anche parole da perfetto anti-juventino. Traditore per i napoletani, ma neppure un santo per gli ultrà bianconero. Sarri non teme nulla. Soprattutto le parole degli altri. Inizia con la convinzione che con le sue idee e con quei giocatori può nascere una macchina perfetta, un altro Manchester City e che puà riuscire nell'impresa di creare una squadra dei sogni. Ma deve fare i conti con i giocatori più vecchi, molti poco disponibili a quei turni massacranti di doppio allenamento (che infatti a settembre spariscono), mal propensi ai sacrifici che invoca il sarrismo, spesso coi nervi tesi perché le stelle fanno troppo le stelle senza essere decisivi come prima. E allora, ecco che Sarri inizia a parlare con tutti; Dybala, Ronaldo, Bonucci, e così via. Sedute psichiatriche più che tecniche. Ne aveva fatta solo una a Napoli, decisiva: dopo Empoli-Napoli 2-2, nel settembre del 2015. Parlò una sola volta col gruppo e si capirono. A Torino non è andata così. Ogni volta c'è da chiarire una questione. Ha inseguito il bandolo della matassa, ed è riuscito a trovarlo sennò non sarebbe arrivato a vincere il titolo. O meglio, non lo ha trovato, in ogni caso, come avrebbe vorrebbe lui. Dopo il lockdown anche lui capisce che non ha senso inseguire a giugno e luglio il bel gioco. Ha trovato l'equilibrio, ha cercato l'ordine, senza fare voli pindarici. Meglio badare alla sostanza. In Sarri questo è cambiato. E tanto. Non tradisce se stesso, perché anche lui vuole vincere, non solo giocare bene. Lo scudetto sa bene che non cancella le critiche e i cattivi pensieri di queste settimane: ha perso una finale di Coppa Italia ai rigori ed è diventato una specie di capro espiatorio. Sa che non è finita. Perché ora il prossimo bivio è il Lione e quando arriverà a Lisbona, dovrà vincere per forza. Come sempre, sarà sotto esame. Perché se vince, doveva giocare bene. Se gioca bene, doveva vincere. Se ne faccia una ragione: se non è Allegri, sarà Pochettino. Poi magari ancora Guardiola o persino Zidane. Ma ci sarà sempre qualcuno che incombe su di lui. Pure se ha vinto il campionato. i cosa.
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