Non chiamatelo core ‘ngrato. Avrebbe fatto carte false pur di giocarsi Udinese-Napoli seduto sull’altra panchina. Amore eterno, quello di Fabio Cannavaro dalla Loggetta per la maglia azzurra. Una sofferenza vedere la caduta libera degli azzurri in questa stagione senza resurrezione. Ma Aurelio De Laurentiis non lo ha mai preso in considerazione in questo anno di casting senza fine, dove ha pensato a chiunque, tranne alla figurina del calcio italiano, all’uomo che alzò la Coppa del mondo al cielo di Berlino. «Ma un giorno coronerò il mio sogno», ha ammesso sorridente. Ma non per questo c’è frattura o disincanto. Anche quando ha preso il centro Paradiso ha pensato al Napoli: «Se vuole, il campo sarà pronto presto». Senza rancore. Il suo modello non è mai stato Houdini, definito banalmente un illusionista. Non è capace di fare intrattenimento, esibendo se stesso. La colpa di Cannavaro è stata sempre quella di non sapersi portare in trionfo. Un anno fa era nella sua casa di Posillipo a festeggiare il ritorno dello scudetto con i fuochi d’artificio e con un giro in scooter e la bandiera, c’è anche la sua emozione raccontata nel film prodotto dalla Filmauro, ci sono le sue lunghe cene con Spalletti nella stagione del trionfo che fanno parte del suo repertorio di ricordi. «Ora devo battere il Napoli e conquistare i tre punti per la salvezza con l’Udinese. È l’unica cosa che conta per me». Non è la prima volta che affronta il Napoli da avversario. «Ma non dite mai nemico. Io sono tifoso sempre, tranne quando gioco contro. Come domani sera». Uno scudetto lo ha vinto sul campo, col Napoli. Sia pure solo da raccattapalle, in quel 10 maggio 1987, giorno del primo trionfo. Un inedito, però, affrontare il Napoli da allenatore, ma da calciatore è già successo. Otto volte. «Me la ricordo ancora la prima al San Paolo quando ero stato da poco venduto al Parma: per l’emozione per poco non rimediai pure un cartellino rosso», ha raccontato qualche giorno fa. Era il 3 dicembre del 1995. I tifosi azzurri gli dedicarono, mesi dopo, uno striscione, dopo un sul gol alla Salernitana. L’ultima recita da avversario nel 2010, con la Juventus, sempre a Fuorigrotta: perse 3-1.
Né commozioni né lacrime, ci mancherebbe. Papà Pasquale resterà a casa a vedere la partita, domani allo stadio Friuli ci sarà solo la moglie Daniela. La salvezza dell’Udinese serve a se stesso e a tutto il calcio italiano che, non si sa perché, solo adesso ha concesso un’occasione a uno degli eroi di Germania 2006, il figlio prediletto di Lippi che lo volle in Cina al suo fianco. «Io anche quando mi chiamavano “terrone” mi sarei voluto fermare. È razzismo anche questo», ha spiegato nell’ultima intervista al Mattino, senza nascondere il viscerale rapporto che ha con la sua terra. Guarda la formazione del Napoli e non si dà pace: «Come sono forti, mamma mia. Ma come fanno a stare così giù?».