A caccia di Pokemon a Napoli: ecco tutte le tane dei «mostriciattoli» | Foto

A caccia di Pokemon a Napoli: ecco tutte le tane dei «mostriciattoli» | Foto
di Raffaella R. Ferrè
Giovedì 21 Luglio 2016, 13:03 - Ultimo agg. 22 Luglio, 10:37
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Non tutti quelli che vagano si sono persi, scriveva Tolkien. A Napoli, la cosa è ancora più vera in questi giorni. Chi si espone al sole e cammina senza meta apparente in questo caldo che sembra venire da un forno acceso, uno per ogni casa, non si è smarrito vittima di un'insolazione, no: sta cercando. Cosa? I Pokémon.
Sì, il fatto fa sorridere molti, anche me. Fino a poche ore fa ero pronta a giurare che l'esistenza di questi animaletti colorati fosse una fantasia relegata all'infanzia, finita come i cartoni animati che l'hanno accompagnata. Invece la Nintendo li ha riportati in vita, per le strade della nostra città. La cosa ha dato vita a commenti vari, battute assai scherzose su altri animali che è possibile incrociare sul proprio cammino per Napoli stavolta veri ma soprattutto a comportamenti particolari.

Il gioco si chiama Pokémon Go e funziona come tutte le altre più o meno maledette applicazioni che abbiamo sul nostro smartphone. Lo si scarica, si sceglie un nome di battaglia e poi in base alla nostra posizione geolocalizzata, si può accedere ad informazioni su qualcosa che potremmo benissimo fare a meno di sapere. Ovvero se c'è un Pokémon vicino al punto in cui siamo. Ad ogni fantasmagorica bestiolina catturata puntando su di lei la fotocamera e lanciando, nella realtà virtuale, una sfera, il nostro punteggio aumenta; ma le stesse palline cattura mostriciattoli vanno conquistate ai pokestore, altri punti disseminati in giro per la città. A tutto questo si accede solo trovandoseli davanti. Questo gioco virtuale, infatti, contravviene ad alcune delle sue stesse regole. Dimenticate, ad esempio, i ragazzi chiusi in casa davanti ad uno schermo: per vincere, qui, quello che sta fuori le strade, le piazze, i monumenti - è necessario. «Durante il gioco presta sempre attenzione all'ambiente che ti circonda», informa la schermata di lancio dell'applicazione. Senza uscire non si può giocare: un altro retaggio di un'infanzia che non so nemmeno se abbiamo mai davvero avuto ma che, sono certa, tutti ricordiamo e che ora ritorna.
 

 

Eccoci qui, a trenta o quarant'anni come a dodici: per strada. Invece di prendere il pallone incastrato sotto la marmitta di un'automobile o finito al primo piano di un palazzo, cerchiamo di prendere i Pokémon. Fortunatamente l'algoritmo prevede, per sicurezza, che si trovino in abbondanza in zone pedonali, quindi molte di queste creature dicono online, sui gruppi Whatsapp e Facebook creati appositamente stanno in Villa Comunale, al Virgiliano o sul lungomare, come fossero turisti. È tra loro che mi faccio largo io, per cominciare. Il mio continuo puntare la fotocamera sulla strada fa sogghignare alcuni di loro: hanno capito cosa sto facendo? Quando trovo il mio primo Pokémon che è verde e sarebbe anche simpatico se non avesse le zanne in esposizione, ho camminato per un chilometro o quasi e invidio tantissimo chi si è trovato uno di questi animaletti da cartone in casa. Esausta al tavolino di plastica rossa preso in ostaggio per il prezzo di una birra davanti a me ho il mare e questa che continua a sembrarmi la migliore promessa di felicità che la città possa farmi nonché il più sostenibile anticipo di vacanze ancora tutte da venire. Sotto di me i ragazzi si sono spogliati vincendo caldo e vergogna in un colpo solo: non sanno niente dei Pokémon e si tuffano al tre, davanti ad una bancarella che vende cozze, direttamente dal marciapiede a mare. L'animaletto fa la sua comparsa sotto un ombrellone fissato nel cemento in assenza di sabbia, accanto ai barcaioli che pranzano a pastasciutta e odore di mare stremato, l'odore che senti solo quando il vento fa un giro basso. Il tempo di metterlo a fuoco e di scattare in piedi e vedo un altro, un uomo, fare le mie stesse mosse: ha qualche anno più di me, decido, il collo un po' floscio della sua camicia mi dice che è in pausa pranzo ed entrambi abbiamo il cellulare in una mano. Con l'altra stiamo puntando qualcosa che esiste solo sul nostro schermo. Quando ci accorgiamo l'uno della presenza dell'altro scoppiamo a ridere. Stiamo giocando, in fondo. Non ci diciamo niente perché dopo la prima gioia di sapere che nessuno dei due è solo nella sua pazzia bambinesca ci vergogniamo un po', ma ci siamo riconosciuti. Ecco la seconda regola del virtuale infranta: non si è fisicamente soli in questo gioco. Per quanto la sfida sia individuale, è facile individuare chi sta conducendo la sua personalissima battaglia come te e chi no, basta far caso a quelli che spostano continuamente il proprio cellulare come se cercassero campo. Immagino che i più giovani possano addirittura far amicizia così, identificandosi come simili e sorridendone. Non funziona poi a questa maniera per tutti quelli che decidiamo di chiamare amici? Riprendo la mia caccia, stavolta in compagnia. Lo schermo è uno solo, il mio, ma a guardarlo siamo in due. «Oìllòco!», eccolo, dice il mio compagno: Spearow con il piumaggio che sembra ruvido anche nel virtuale e un becco a uncino come i rapaci, ha fatto la sua comparsa. Secondo la mappa, zampetta poco lontano dall'ingresso del Teatro San Carlo e per quanto catturarlo mi risulti leggermente difficile, devo riconoscere che mentre pazzeo, all'età di trentatré anni, sto imparando una cosa sulla città: l'esatta collocazione del mio Pokémon, infatti, è su una delle statue ai lati del giardino di Palazzo Reale, denominata precisamente statua equestre donata dallo zar di Russia, di cui non conoscevo la storia fino a poco fa. Adesso, invece, so anche che il nome esatto è Palafrenieri, che le ha realizzate lo scultore Peter Jakob Clodt von Jürgensburg e anche se non sono riuscita a prendere questa specie di aquila, mi pare di aver fatto una cosa buona questo pomeriggio. Spostandomi di poco - mi diranno in seguito che ho avuto la fortuna della principiante -, catturo, invece, il Pokémon Uovo, tale Exeggcute: la sua ubicazione è la Fontana del Carciofo di Piazza Trieste e Trento e su di lei so abbastanza, eppure questa realtà aumentata nel vero senso della parola mi permette di aggiungere i ricordi di un altro ai miei.

Anche questo è un modo per vivere Napoli, penso: si dice sempre che non siamo coscienti della nostra storia, invece così è impossibile non fare domande a se stessi, agli altri o a Google. Cercando i Pokémon, sto scoprendo la città: uno è vicino alla statua del cosiddetto Gigante, a via Cesario Console; uno accanto ad una finora invisibile, almeno ai miei occhi, street art cittadina. Il mio vagare è diventato un itinerario inconsueto tra palazzi che non avrei mai notato a camminare con gli occhi bassi, quelli di sempre, quelli che puntano solo ai piedi cercando di scansare una buca o una blatta; la mia strada è piena di risate, se trovo una creatura rara e la vedono anche gli altri: la ressa per catturarla è virale e a breve saprò di vere e proprie squadre che si danno appuntamento per la caccia o per piazzare insieme le esche' per far sbucare gli animaletti e acchiapparli.

Magari, cercando di prendere loro, toccheremo la bella mbriana o il munaciello. O magari, se è vero come ho letto da qualche parte che l'attenzione è la più pura forma di generosità, stiamo facendo del bene. Pensare di riuscirci pazziando, in un tempo in cui le pubblicità ci dicono che il gioco è vietato ai minori di 18 anni e che prevede un esborso economico capace di rovinare famiglie, non mi pare così male. Anzi, mi sembra infinitamente meglio di quando l'unico Pikachù di cui sapevo l'esistenza era un pregiudicato della Sanità.

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