Medicina, Gaya Spolverato: «Una nuova classe di chirurghi oncologi specializzati»

La professoressa sta attuando una rivoluzione: «Formiamo in aree mirate e in modo empatico i giovani medici Il ruolo cambia, devono prepararsi in centri diversi come negli Usa. E fare team con l’ammalato in un rapporto di reciproca fiducia»

Gaya Spolverato
Gaya Spolverato
di Carla Massi
Giovedì 11 Aprile 2024, 07:30 - Ultimo agg. 12:32
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Vuole, fortissimamente vuole, rivoluzionare il ruolo del chirurgo oncologo.

Dice che il suo desiderio di essere medico nasce da un progetto di libertà. Racconta (e le si illuminano gli occhi) di essere cresciuta in una famiglia semplice, con un padre orologiaio che ha iniziato a lavorare a 8 anni e una madre sarta, artigiana forte e determinata. Sostiene che «la tecnologia passerà, la fama passerà ma il prendersi cura degli ammalati non passerà mai». Ricorda che il patto con il paziente «inizia dal momento in cui lei o lui entra nello studio». Insegna a «dire la verità senza togliere la speranza». Dice che «le donne non devono essere più brave dell’uomo, bastiamo così dritte nella tempesta con lo sguardo rivolto alle stelle». 


Gaya Spolverato è una chirurga oncologa nata e cresciuta ad Albignasego nel Padovano. Quest’anno ne compie 40, sposata, due figli. Dopo la laurea in Medicina e la specializzazione vola al Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York. È stata ricercatrice in chirurgia oncologica alla Johns Hopkins di Baltimora. Nel 2018 torna in Italia. Attualmente lavora come Associata di Chirurgia al Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Oncologiche e Gastroenterologiche e Dirigente Medico in Chirurgia dell’Azienda Ospedale Università di Padova. Ha eseguito oltre 3500 interventi di chirurgia maggiore da primo operatore. È autrice di più di 200 articoli scientifici. Nel 2015 co-fonda Women in Surgery Italia, l’associazione delle chirurghe italiane. Dal 2021 è Delegata della Rettrice dell’Università di Padova alle politiche per le pari opportunità. 


Professoressa, un suo obiettivo, oltre la cura dei pazienti e la ricerca, è quello di disegnare un nuovo chirurgo oncologo. Perché?
«In Italia abbiamo grandi scuole di chirurgia ma manca una specializzazione in chirurgia oncologica come avviene negli Stati Uniti o in Canada. Non voglio dire che ottimi chirurghi generali non possano fare la chirurgia oncologica e farla anche molto bene, ma per un futuro prossimo dobbiamo pensare di creare una classe di medici che si occupano solo di chirurgia oncologica».
E lei sta lavorando per questo?
«La Società Italiana di Chirurgia Oncologica ha scelto di investire su questo progetto. Si chiama “fellowship in chirurgia oncologica”, e consiste proprio nella formazione chirurgica durante l’ultimo anno della specializzazione».
All’Università di Padova lavorerete in questa direzione, vero?
«Stiamo progettando aree differenti della chirurgia oncologica. È previsto un sistema di rotazioni in centri nazionali, anche nell’Università di Padova, su più aree. Così che il giovane medico possa avere una visione più generale della chirurgia oncologica e, al tempo stesso, focalizzarsi su ciò che gli interessa. Una formazione di questo tipo si ha solo negli Stati Uniti dove ho studiato e lavorato io».
Un chirurgo superspecializzato con un ruolo diverso da quello che è oggi anche nel rapporto con il paziente e nel team di cura?
«Il chirurgo non può essere più colui al quale affidiamo solo il nostro corpo quando entra in sala operatoria. Il paziente affida la sua vita, i sogni, le ambizioni, il desiderio di assistere al saggio di danza dei figli, il sogno di quella casa che vorrebbe comprare. Dobbiamo partecipare a tutto questo. Il ruolo cambia, il chirurgo accompagna sempre l’ammalato, ma fa team in modo continuativo. Sta accanto a chi sta male durante tutto il percorso».
Cambierà anche il rapporto del paziente con il chirurgo oncologo, dunque?
«Una reale trasformazione di rapporti e fiducia reciproca. La certezza della competenza sotto tutti i punti di vista».
E quando sembra di fallire? Quando le cure non danno i risultati che si desiderano?
«Il chirurgo “nuovo” dovrà essere formato per riuscire a essere pronto anche nei momenti più duri. A prendersi cura senza lasciarsi travolgere dal dolore. Situazione ancora più complessa se sei giovane e se sei donna. Non c’è letteratura. Per questo ci vuole una squadra forte alle spalle. Il tuo team».
Lei racconta di essersi iscritta a Medicina «per essere la migliore opzione per i pazienti». Ci è riuscita?
«Fare la chirurga oncologa significa fare un patto, accettare la perdita, sedersi davanti alle famiglia e cambiare insieme le terapie se necessario. Vedere i propri errori, le complicanze, accettare di essere umani. Lavoro per restare in piedi nella tempesta, di tempeste ce ne saranno sempre. Fallire è terribile».
Un investimento in un ambiente dove è riconosciuto ciò che sei e sai fare?
«Anche se c’è stato l’errore, anche se si vacilla, le emozioni, che hanno sempre rappresentato lo stigma del genere femminile sono la base della tua “leadership emotiva”, la forza che ti permetterà di essere la migliore opzione per la risoluzione della crisi e del conflitto. Va ricordato che bastiamo così. Ripeto, diritte in piedi nella tempesta, strette nelle nostre emozioni, sostenute dalla conoscenza».

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