Aziz Abbes Mouhiidine, parlo di me:
«Così concilio la boxe e la spiritualità»

Aziz Abbes Mouhiidine, parlo di me: «Così concilio la boxe e la spiritualità»
di Angelo Carotenuto
Sabato 5 Novembre 2022, 16:00 - Ultimo agg. 6 Novembre, 09:06
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Aziz si fa trovare al binario della stazione di Assisi. Solleva alcuni chili di muscoli per salutare e si capisce da lontano che il campione europeo dei pesi massimi è lui. Il centro della federazione pugilistica dista un paio di minuti. I nazionali vivono là, in ritiro permanente, in una curiosa assonanza di termini tra la religione e la loro vita dedicata alla boxe. Aziz Abbes Mouhiidine ha riportato il titolo in Italia dopo 24 anni. Gli stessi che ha lui. Suo padre era marocchino, sua madre è irpina. Dal tavolino del bar in centro, i rintocchi delle campane delle chiese non paiono diversi dal gong che suona a bordo ring. Sono lontani gli anni 60, quando L'Osservatore Romano definiva il pugilato «un omicidio con i guanti». Solo da Paolo VI in poi si trova traccia di incontri pubblici di un papa con un pugile. Aziz dice che il suo con Bergoglio è tra i ricordi più cari. Ne parla in un'ora e mezza di chiacchiere che saranno piene di spiritualità.

Mi dice perché combatte con i calzini e le scarpe gialle fluo?
«È un colore che spicca pure al buio. Sul ring voglio farmi vedere più possibile. Sono un egocentrico, forse. Non so se esiste un pugile che non lo sia. Salire su un ring è come stare su un palco. Siamo tutti narcisi, dopo Muhammad Ali».

Come ha conosciuto la storia di Ali?
«È stato mio padre. Era un idolo suo, è diventato anche il mio. Una sera su Rete4 davano il film con Will Smith, mi chiama e dice: vieni a vedere. Una folgorazione. A bocca aperta chiesi: ma sono tutte vere, queste cose? Ho amato Ali per il suo estro sul ring, per il suo impegno verso il popolo africano, per Malcolm X, per il match di Kinshasa, per il rifiuto di andare in Vietnam e non uccidere».

I campioni dello sport devono essere dei modelli?
«Tutti i numeri uno dovrebbero avvertirlo come un bisogno. Non solo gli sportivi. Si diventa leader quando si è più di sé stessi.

Tutti noi, nel proprio piccolo, dovremmo provarci. Io non sono Ali, ma so che posso parlare ai ragazzi che incontro, posso essere di incoraggiamento per chi cerca una strada e una rivalsa».

A chi parla?
«Ai bambini che vanno in palestra, a chi mi chiede una foto, agli studenti di un liceo scientifico dove sono stato di recente, ragazzi che sembravano indecisi di fronte alle prossime scelte. Seguite la vostra chiamata, gli ho detto. Non al 70 per cento, al 100. Rinunciate al resto. È così che assillo i miei amici quando mi pare che si facciano bastare quello che hanno, quando trascorrono le giornate su un muretto. Abbiamo solo questa vita».

È sicuro di avere 24 anni?
«Sento di averne di più, di sicuro ne avevo 15-16 quando ho capito che dovevo impegnarmi e cercarmi una via. Forse è vero che l'Italia non fa abbastanza per i suoi giovani, allora pensiamo noi giovani a fare qualcosa per l'Italia, a prendere per mano il Paese e farlo migliorare».

Lei ha una fede religiosa?
«Papà era musulmano, mamma è cattolica, ognuno è stato anche un po' dell'altro. Un grande esempio, per me. In casa era due volte Pasqua, due volte Natale. Papà pregava cinque volte al giorno e non c'è mai stato un disaccordo su nulla. È stato lui ad accompagnare mamma e i nonni in pellegrinaggio da Padre Pio. Mi hanno fatto scegliere in tutta libertà la mia religione. Sono cristiano, ma prima ho studiato l'Islam. Non è come viene descritto spesso in televisione. Non lo dice il Corano di maltrattare le donne, lo dice la sete di potere».

I suoi genitori come si sono conosciuti?
«Quella di papà non è stata una storia classica di immigrazione. È venuto dal Marocco con una borsa di studio per l'Università di Perugia, si è laureato in ingegneria. Un'estate è andato in vacanza a Salerno con un amico, mia madre lavorava come ragioniera al lido dove facevano i bagni. Nel 97 si sono conosciuti, nel 98 sono nato io».

Le hanno chiesto come concilia Cristo con la boxe?
«La boxe non è fatta da due che si picchiano, ma da due che si battono per prevalere in quell'istante, dentro un contesto di regole, rispetto e lealtà. La cosa più bella arriva alla fine, quando ci abbracciamo. Per celebrare il giorno dell'amicizia, la federazione internazionale ha postato una foto scattata dopo il match mondiale tra me e il cubano La Cruz. Mi aveva spaccato a sangue, ma eravamo abbracciati. Sento i tg chiamare pugili certi aggressori, per fatti di cronaca. Si è pugili solo dentro le corde di un ring».

Com'è la vita in ritiro?
«Dura. Stacchiamo ogni tanto, due o tre giorni a casa, il tempo di sciacquare i panni, cambiare la valigia. A stare lontano da mia madre non mi abituo mai. Tutto il resto - la tavola, il peso - non sono sacrifici. In economia si direbbe un investimento su sé stessi. Io preferisco chiamarla la coltivazione di me. Non mi obbliga nessuno. È la vita che ho scelto. È un privilegio. Quando torno a Montoro, mi riposo, mi godo gli amici, mi coccolo mamma e mi strapazzo Francesco, il figlio di una cugina che per me è una sorella. I pupazzi che mi danno alle premiazioni, sono tutti per lui».

È stato in Marocco?
«Due volte. La prima a 6 anni, siamo rimasti due mesi, papà mi portò a conoscere il nonno che si chiama come me. In Marocco non c'è l'abitudine di tramandare il nome, a meno che il nonno non sia morto. A mia madre piaceva l'idea di chiamarmi Abbes, solo temeva che il nonno la prendesse male. Non si offese. La seconda volta un anno fa, dopo la mancata qualificazione alle Olimpiadi. Ero a pezzi. Fu un'idea della mia ragazza, Carlotta Paoletti, anche lei è in Nazionale di boxe. Andiamo in Africa, disse, troverai la tua energia. Fu bellissimo sentirlo proporre, aveva ragione, mi sono rigenerato. Sono stato con i fratelli e le sorelle di mio padre, con Said che è identico a lui, mi hanno presentato mezza Casablanca. Sono il nipote perfetto: un pugile e un poliziotto, un vanto. È stata la mia salvezza, le cose dello spirito sono inspiegabili. Come quella che accadde sul ring quattro anni fa al campionato italiano. Papà era morto da 12 giorni. Al primo round le stavo prendendo e ho sentito una voce che parlava in arabo. Io non parlo arabo e lo capisco poco. Allora ho sentito mio padre da lontano che traduceva: non ti lasciare andare, la vittoria è tua. Ho vinto».

Come si reagisce a un verdetto ingiusto?
«Impari. Cadi sette volte e ti rialzi otto. Ci sono momenti in cui viene da invidiare quelli che fanno sport con il cronometro, dove la superiorità è oggettiva. Mia madre mi ha insegnato che c'è una soluzione a tutto. È una forza della natura, aver visto come ha vissuto la malattia di papà mi ha dato altra energia. Papà ha voluto essere sepolto in Italia. Chi muore in terra straniera, desidera tornare a casa. Lui chiese di restare qui, dove ha costruito la sua famiglia. So che lascio voi, mi disse».

Che cosa significa il suo nome?
«Aziz vuol dire caro, Abbes è il nome di un principe arabo. Quand'ero bambino, mia madre mi chiamava Aziz quando la facevo arrabbiare e Abbes se facevo il bravo. Ora è da tanto che non mi chiama Aziz».

Come vive da italiano le offese verso gli stranieri?
«Le sento mie. L'offesa per un nome che non è italiano, per il colore della pelle, per una differenza di genere. Il bene e il male si trovano in tutti i colori e in tutte le nazioni. Black Lives Matter lo capisco. L'uomo è andato sulla luna e non ci rispettano sulla terra. Ho visto su Instagram una bella foto, tre cuori affiancati, quello di un bianco, di un nero e di un asiatico. Non c'erano differenze. Mi chiedo perché un ragazzo che nasce in Italia, va a scuola in Italia, cresce da italiano, debba aspettare i 18 anni per la cittadinanza. È un modo per farti sentire sbagliato».

Aziz, qual è il giorno più bello che immagina di dover vivere?
«Il giorno in cui mi sposerò in chiesa. È un'idea che mi emoziona. La celebrazione del proprio amore davanti a Dio. L'anno prossimo faccio la proposta a Carlotta, e dopo i Giochi di Parigi, dai, ci sposiamo». 

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