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Peppe Vessicchio: «Io direttore d'orchestra mi diverto a combinare la scienza con la musica»

di Angelo Carotenuto
Articolo riservato agli abbonati
Sabato 29 Ottobre 2022, 08:19 - Ultimo agg. : 17:49
7 Minuti di Lettura

Audrey annusa il temporale. Sente il tuono prima che arrivi e viene a mettere il muso sotto la mano, tra penna e foglio. Resterà sdraiata ai piedi del suo maestro tutto il tempo, mentre un esercizio al piano arriva chissà da dove. Alla sua attività di musicista, Peppe Vessicchio combina da tempo un percorso da ricercatore sul potere del suono, anzi, sulla potenza: il potere esige qualcosa in cambio, il suono arriva e si dà, gratuitamente, cambiando il mondo intorno. Vessicchio lesse di come certe mucche nel Wisconsin facessero latte migliore ascoltando Mozart. Studiò quei meccanismi e ha iniziato a comporre seguendo incroci di melodie, combinazioni di frequenze che chiama armonico-naturali. Il Metodo Freman aiuta i pomodori a crescere sotto le serre, muta il vincolo vitale tra le molecole del vino. È nata così la cantina Musikè. L'ultimo esperimento è dell'estate scorsa: sotto il Gran Sasso, nei laboratori dell'Istituto di Fisica Nucleare. Per sentire come suona l'universo.

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Maestro, che altra diavoleria è questa?
«Registravano l'attività dei muoni, particelle elementari con una carica elettrica che cadono costantemente dall'alto. Un bagno sonoro al quale nell'arco delle ere ci siamo adattati. Abbiamo catturato il loro arrivo in un dato momento del 21 marzo, solstizio di primavera. Un sofisticato algoritmo li ha tradotti in una sequenza di note. Gli scienziati hanno tracciato i rilievi e io ho composto una musica che desse una logica a tale melodia, una coerenza all'ascolto. Lo rifaremo a ogni solstizio, così avremo temi per le Quattro Stagioni, stavolta dettati dal cosmo».

Come stanno insieme la scienza che vive di dati e l'arte che vive di intuizioni?
«C'è chi la scienza la fa, chi la divulga, chi ripete cose scoperte e siede alla cassa a staccare i biglietti. Oppure c'è chi va contromano a cercare qualcosa, sapendo che potrebbe non trovarla. È un moto dello spirito. L'artista intuisce, lo scienziato misura, i dati certificano le visioni. Claude Bernard era un fisiologo francese, fondatore della medicina sperimentale, a un certo punto pensò di scrivere per il teatro. Cercava cose, rischiando: chi lo fa, si pone fuori dal suo campo. Quel che sappiamo, spesso è il più grande impedimento alla scoperta di ciò che non conosciamo. Un paradosso. Come tentare di dimostrare l'esistenza di Dio».

Dio suona?
«Secondo me sì, ma il suono ce l'abbiamo solo noi umani sulla Terra. Sugli altri pianeti c'è silenzio. Resta un dubbio per gli anelli di Saturno. Anche il Big Bang è avvenuto in silenzio. Il suono è un privilegio di cui godiamo. Ci permette di dialogare».

Esistono suoni brutti?
«I suoni del conflitto. Quando le note in simultanea non generano la pace degli armonici. Si chiamano battimenti. Sono per esempio quelli di un pianoforte scordato, quando una o più corde del martelletto non vibrano insieme, alla stessa frequenza o nei suoi multipli. Tutte le disarmonie che incontriamo, sono in fondo sonore».

Tra arte e scienza, cosa ha ancora il potere di stupirla?
«I bambini. La loro capacità di osservazione. Peccato che a un certo punto si assopisca. Ci spegniamo per questioni culturali e schemi sociali. Più che noia, credo sia bisogno di abitudine, il paravento della sicurezza. La musica aiuta a stare allo scoperto. C'è l'artista che non si racconta bugie, gira intorno a una ricerca e non ne viene fuori. Altri iniziano a replicare, con l'obiettivo massimo di migliorare il già sentito, senza salti in avanti. Quando un linguaggio espressivo va sul mercato, viene sopraffatto. Perfino alla medicina è accaduto. Per non dire della letteratura. Non ho nulla contro i prodotti del mercato, mi addolora quando diventano motivo per stravolgere i processi di crescita culturale».

Il giro di Do è un processo rassicurante?
«È casa. È una progressione equilibrata. Garantisce a un esploratore della musica una straordinaria comodità. Attenzione: il giro di Do è già una evoluzione raffinata rispetto a certi schemi - penso alla pizzica popolare. Anche il blues vive di standard. Il Cielo in una stanza è un giro di Do ma nella sua semplicità è alta poesia. Senza supponenza. Gino Paoli non ha eguali».

Cosa pensò quando in lockdown si usciva a cantare sui balconi?
«È stato bellissimo. Il segno disperato che la musica appartiene a tutti, il segno delle proprie paure e dell'appartenenza a una comunità. Eravamo uniti contro qualcosa che non conoscevamo. Appena abbiamo scoperto cosa fosse, sono tornate la diffidenza e la separazione».

Anche Bella Ciao può appartenere a tutti? O sarà sempre destinata a dividere?
«Le canzoni sono abiti. Ognuno l'adatta a sé e ci vede dentro quel che vuole. All'estero è una canzone popolare con la quale ci identificano. In Via dei Ciclamini è una filastrocca e parla di un bordello. Il Cielo in una stanza è un inno all'amore ed è nata per il sesso a pagamento, con il soffitto viola e la stanza che non ha più pareti. Ci sono canzoni che diventano il simbolo di qualcosa e dell'anti-qualcosa. È successo anche alla scienza. È nata addirittura la parola anti-scienza. Non ho ancora capito cosa sia».

Nel suono c'è più razionalità o magia?
«Nel suono c'è molto di più del suono. A Cremona il liutaio Massimo Lucchi ha depositato un brevetto per misurare la conducibilità del legno. Suo padre Giovanni costruiva archetti, riconosceva le bacchette migliori tenendole tra le mani. Ne selezionò una decina e chiese a dei ricercatori di individuare i tratti comuni e definire criteri scientifici. Ora esiste l'unità di misura del lucchimetro e ci ha consentito di notare come un archetto sia significativamente migliorato nella sua capacità di vibrare dopo essere stato utilizzato con costanza da un grande violinista. Significa che evolve pure la materia inerte. Anche uno Stradivari ha bisogno di cure, non per migliorare, ma per non perdere pregio. C'è un gruppo di musicisti che va a suonare gli strumenti chiusi nei musei ogni mese. Per tenerli in vita».

A giugno una sua composizione è stata eseguita dai solisti della Scala nella stagione cameristica, come fuori programma. Che altro le resta nel cassetto?
«Quando la prima viola ha annunciato al pubblico che avrebbero chiuso il concerto con una mia composizione, c'è stata un'accoglienza tiepida, diffidente. Ero là. Che ci faceva il maestro Vessicchio alla Scala con un pezzo di musica da camera? Il lunghissimo applauso finale ha rovesciato tutto. Nel cassetto ci sono un po' di note scritte. Sto lavorando alla colonna sonora per un film di Bille August tratto da un libro di Erri De Luca. Scrivere musica per il cinema può essere doloroso per un compositore. Non sono un ragazzino. Voglio rimanere fedele a me stesso. Spero di trovare il confine giusto tra la mia prospettiva e quella del regista».

Lei cosa sente quando cerca un bel suono?
«Mi canto delle cose. Apro l'armadietto della musica emotiva. Pesco dal Brasile, dal patrimonio di Napoli e di Genova. Sono i miei tre poli. Faccio come i bambini che si cantano la ninna nanna da soli, a voce alta. Ci siamo abituati alle cuffie, invece dovremmo recuperare la capacità di vibrare con l'aria. È per quello che ai concerti la musica è migliore. Siamo immersi nel suono. Bisognerebbe progettare camere acustiche, vasche sonore, comporre musica per esplorare i sensi. Invece se ne fa tanta, forse troppa, per compiacere il tipo di mezzo che la trasmette».

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