Parlo di me, Gioacchino Criaco: «L'Aspromonte di "Anime nere" storia infinita e complessa»

Lo scrittore di Africo e i 9 David

Gioacchino Criaco
Gioacchino Criaco
di Angelo Carotenuto
Domenica 26 Febbraio 2023, 09:44 - Ultimo agg. 17:33
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Africo è un borgo ai piedi dell'Aspromonte, sulla costa ionica. È stato attraversato da terremoti e una famosa alluvione del 1951. Quarant'anni fa era nelle cronache per una faida di ndrangheta, la sua amministrazione comunale è stata più volte sciolta. Lo scrittore lombardo Corrado Stajano scese all'epoca in paese per un'inchiesta sui conflitti sociali. Oggi Africo ha un suo narratore in Gioacchino Criaco, autore di La Maligredi e Il Custode delle Parole (Feltrinelli), tradotto in tutta Europa all'esordio con Anime Nere (Rubbettino), 9 David di Donatello quando è diventato un film. Africo è il punto di caduta di ogni sua opera e indagine, stavolta sentimentale, tra giardini e gelsomini, madri e guerrieri, draghi e porci, favole nere e dichiarazioni d'amore.

«Non mi immagino a raccontare altro. Ho vissuto più a Milano che in Aspromonte, ho girato il mondo, ma mi sento un enclave viaggiante, indissolubile con la mia montagna. Mi pare il luogo della vicinanza alle cose che contano. L'Aspromonte è considerato marginale e insignificante, in realtà è una storia infinita, complessa».

Cosa c'è di incompreso nell'Aspromonte?
«È raccontato in modo sbagliato, a partire dal nome. La mia generazione è andata via anche per una malintesa comprensione delle parole. Ce l'hanno presentata come la montagna ostile, pochi si rendevano conto che per noi il termine asper non ha lo stesso significato che in latino. Il grecanico è la nostra lingua, e aspro significa bianco. Credevamo di scappare dal buio di una parola sbagliata e siamo fuggiti dalla luce. Nel buio ci siamo invece finiti, in molti modi. Io con il lavoro in un ufficio legale, altri nel buio delle galere e delle tombe. Siamo andati via per vivere storie che non erano nostre. L'ho scoperto 40 anni dopo, quando ho cominciato a scrivere. Ora vivo da aspromontano al quale non frega niente delle carriere e di un modello che fissa traguardi da raggiungere».

Lei abita a Milano. C'entra qualcosa con questa consapevolezza?
«L'ho capito in decenni dentro la civiltà progredita. Cos'è la modernità? Questa è la domanda che tutti noi del sud dovremmo farci.

Ne avevamo una del pensiero e dell'equilibrio con la natura. Pensavamo non avesse importanza, perché non porta soldi. Così siamo andati a cercarne un'altra equivoca, che ci desse benessere. Qual è il senso di abitare in città e passare la maggior parte del tempo al lavoro? È come scegliersi il carcere da soli. In montagna la libertà non è sostituibile da valori economici. Quando ho lasciato l'ufficio e sono tornato in Aspromonte, senza aver mai avuto prima l'idea di scrivere nulla, è uscito Anime Nere. Lo considero un regalo della montagna».

Cosa pensa delle discussioni su chi parte e chi resta?
«Quella cosa su chi è più coraggioso? Una cavolata retorica. Se non fossi andato via, non avrei potuto studiare. La Calabria non aveva università. Non ho scelto io Bologna, è stata Bologna a darmi casa, libri, cibo. Dov'è la mia scelta? La mia generazione non ha potuto farne. Ecco il motivo del conflitto insanabile con i padri. Non hanno saputo costruirci le condizioni per una scelta. Se non esistono, i percorsi sono obbligati. Abbiamo ricostruito gli affetti saltando i padri, ricongiungendoci ai nonni, loro ci hanno tenuto da parte la terra e ci danno una possiblità di tornare. I numeri della diaspora meridionale sono in aumento. Su cosa si costruisce il futuro, se non lotti contro l'estinzione del tuo mondo?».

Come le pare che Africo abbia accolto i suoi libri e il film?
«Come qualcosa che gli appartiene. Abbiamo subito e continuiamo a subire un racconto esterno. Da Milano, Torino, l'Inghilterra. Un racconto che fosse nostro non lo avevamo avuto. Anime Nere ha spezzato quel blocco. Dentro una di quelle storie di cronaca nera che l'informazione esige da noi, si è aperta una breccia per raccontare il sud dal sud. Una conquista di dignità. Siamo diventati interessanti per un elemento di spiritualità. L'Aspromonte è una sorta di India, un posto esotico e primordiale, con foreste di 10mila anni, a due passi da Milano e Parigi».

Nelle sue storie anche i cattivi hanno qualcuno che li ama. Perché le sta a cuore questo tema?
«È come provare l'esistenza di Dio. L'amore assoluto. Dio provvede a darti qualcuno che ti ama, chiunque tu sia. Nei giorni della cattura di Messina Denaro, tutti si sono sorpresi che qualcuno volesse bene al mostro. Eppure, il pensiero che anche l'essere più abietto abbia un momento d'amore dovrebbe scaldare il cuore. È rivoluzionario. Raccontare l'amore dei cattivi è l'unica forma di anti-conformismo. I film di Sergio Leone lo spiegano benissimo. Al cinema tifiamo per loro perché sono finti. È difficilissimo voler bene ai cattivi veri della realtà in cui sono nato e cresciuto, gli irredimibili, qualcosa fuori dagli schemi».
Irredimibile non è un aggettivo che usa a caso. Com'era Africo da bambino?
«La mia generazione è cresciuta con Stajano. Lui scende nel 79 e scrive questo libro per certi versi bello, per certi versi utile, per noi adolescenti una condanna definitiva. Nella prima pagina mette in bocca a un carabiniere una frase terribile: gli africoti sono riottosi e ribelli. Fino a ribelli era ancora piacevole, ma chiudeva così: sono irredimibili. Non si riferiva ai cattivi, ma a noi tutti. Dentro ci senti la puzza dello zolfo e dell'inferno. Così siamo cresciuti convinti di esserlo. Una parte di noi si è persa, era inutile fare del bene, tutti incanalati in questo fiume che conduceva all'inferno».

Qual è stato il suo argine?
«La letteratura. Un giorno aprirono una biblioteca in paese, sono entrato, è cambiato il mondo. Se ne occupava una ragazza appena diplomata. Tutti andavano per guardare lei, cosa che feci anch'io. Iniziò a consigliarmi delle letture, mi dimenticai che era donna e bella, mi innamorai dei libri. Jack London era il mio preferito. Mi ha fatto capire in tempo di quanti trabocchetti fosse disseminata la strada. Ho capito che ci poteva essere un paradiso».

Chi aiuta i ragazzi di oggi?
«Non si aiutano più. C'è stato un tradimento degli intellettuali del sud. Continuano a crescerli con la pacca sulle spalle e la carezza sulla testa, ripetendo la vecchia frase di Stajano, e l'Aspromonte scuro, nero, ostile. Il cambiamento si opera sovvertendo questo addestramento alla sconfitta, figlio di un altro fraintendimento. I più grandi della letteratura calabrese sono stati Alvaro e Strati. Di loro si mette in risalto l'epopea dei vinti. Un falso assoluto. In realtà raccontavano l'eroismo della lotta degli umili per guadagnarsi la vita. Il pastore non era rassegnato. Se lo mostri solo mentre si rannicchia nella capanna di fango, di Alvaro non hai capito nulla. Il mondo in cui nasciamo è centrale. La periferia non esiste. È un concetto economico».

Lei esprime pensieri duri con bonarietà. La mitezza è una forma di eversione?
«È un tratto culturale di noi greci di Calabria. Non c'è rancore, non c'è odio, non c'è rivalsa. Ci fanno crescere con la retorica del riscatto da cercare. Da cosa dovremmo riscattarci? Da quale peccato originale? Non abbiamo peccati né nemici, se non noi stessi. Vivere nella natura è pacificazione. Non c'è popolo al mondo che nella sua ciclica esistenza non abbia pensato di allargare i confini. Tranne il popolo calabrese e meridionale. Le guerre sono state di difesa di un territorio, aperto ai profughi, a chi non ha una patria. Nasciamo e guardiamo in una sola direzione: il nord, il settentrione, il successo. Ma le competizioni solo economiche non ci appartengono. Se ci voltiamo, esiste un mondo vasto al quale apparteniamo, nel Mediterraneo. Ci hanno arruolato dentro una gara che non ci appartiene. Hanno costruito una casa comune secondo gusti che non sono nostri, ne siamo occupanti abusivi e infelici. Diventiamo anche noi cattivi quando parliamo una lingua senza futuro. In calabrese i verbi non lo prevedono. Sembra un gioco semantico, invece è drammatico per una civiltà dover avere una speranza e costruirsi un domani, senza poter dire: sognerà. In greco, il futuro esiste».

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