Bruno Arpaia, Ma tu chi sei: tra madre e figlio lo specchio della vecchiaia

Il racconto di una madre che vive sola da una trentina d'anni nella sua casa ad Ottaviano

Bruno Arpaia
Bruno Arpaia
di Titti Marrone
Lunedì 6 Febbraio 2023, 07:00 - Ultimo agg. 15:33
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«Soltanto due o tre anni fa, mi identificavo ancora con il giovane me stesso... nonostante godessi già dello sconto per anziani sui treni. Oggi qualcosa nel mio cervello mi dice perentoriamente che è meglio non farlo insomma, avverto nel corpo il dolore del tempo». Con scrittura nitida, precisa come un bisturi, Bruno Arpaia evoca la realtà dell'età incalzante nel suo ultimo romanzo Ma tu chi sei (Guanda, pagine 167, euro 18). Titolo riferito, com'è suggerito anche dalla commovente copertina, alla vecchiaia della mamma novantaduenne assediata dalla smemoratezza implacabile dell'Alzheimer.

Ma non per caso enunciativo, privo di punto di domanda: perché è lo stesso figlio ad auto-rivolgersi la frase che sospende ogni processo identitario consolidato, mentre osserva lei nel suo declino inesorabile.

Vi vede il riflesso non solo della propria imminente vecchiaia, ma di sé stesso intero, del proprio essere disarmato, impreparato al cospetto dello scorrere del tempo. La scrittura crea così la magia di aprire il varco a un duplice gioco di specchi: quello del figlio che vede anticipate in lei malattie e decadenza in arrivo, quello del lettore chiamato a riflettere sul crepuscolo della vita.

Arpaia racconta una madre che vive sola da una trentina d'anni nella sua casa ad Ottaviano, in un degrado di oggetti e ambienti che preannuncia il suo. Una madre resa uguale a quelle di tanti dalla livella dell'innalzamento dell'età che allunga la vita, a volte oltre il dovuto: sulle prime è ostinata a voler restare nella casa e a difendersi dalle pressioni del figlio orientato a portarla a Milano dove vive, per poi cedere alla prospettiva della residenza per anziani. Lo scrittore evoca i momenti drammatici in cui si fa strada l'evidenza della smemoratezza, lo svaporamento progressivo dei ricordi. Annota con precisione la pena dei sensi di colpa, quella di dialoghi tra loro che reiterano sempre le stesse domande e le stesse risposte, gli spaesamenti materni, il senso di solitudine disperata che chiude nel medesimo cerchio due mondi ormai irrimediabilmente lontani.

Ma la sua è soprattutto un'inchiesta interiore accurata, profonda, un'auto-fiction dove il dato personale è trasfigurato e universalizzato dalla parola letteraria. C'è violenza, sì, nell'autobiografismo, quella della fustigazione del sé messo a nudo, consegnato inerme a chi legge. Ma poi, annota Arpaia, «non bisognerebbe mai prestare troppa fede alla verità della scrittura autobiografica», poiché scrivere la memoria vuol dire sempre re-inventarla. E com'è tipico del procedimento narrativo di Arpaia, anche qui come in altri suoi libri la realtà fattuale viene intessuta con l'invenzione letteraria, con elementi di riflessione tipici della saggistica, con meditazioni su vecchiaia, malattia e morte suggeriti dai grandi narratori a lui più prossimi. Qui si parla di oblìo con Kundera («Quello che ci terrorizza della morte non è la perdita del futuro, ma la perdita del passato»), di falsi ricordi con Paco Ignacio Taibo, di paura della morte con Saramago e Cioran.

Nel proiettare sulla malattia della madre le proprie ipocondrie, il figlio riporta i sensi di fallimento per essersi bloccato nella scrittura di un libro su Heisenberg. Annota maniacali competenze acquisite sulla conoscenza di anomalie mentali, descrivendo casi di ipertimesia - cioè eccessi di memoria - di prosopagnosia, incapacità di ricordare i volti, oltre che i tentativi di studio e cura dell'Alzheimer. Tutti fili intrecciati in un personalissimo procedimento narrativo che risuona avvincente e per di più capace di affrontare temi come malattia e morte con sfumature di autoironia.

Perché forse, di fronte alla rimozione assoluta imperante su simili argomenti, ad avere ragione più di tutti era ostakovi: «Dovremmo pensarci di più e abituarci all'idea della morte», diceva. «Non possiamo permettere che quel pensiero ci prenda di soprassalto, dobbiamo rendere questa paura familiare e un modo per farlo è scriverne». 

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