Carmen Verde, unica campana in gara al premio Strega: «Anche nelle piccole infelicità si manifesta il senso della vita»

«Ho scoperto l'immagine fondante del libro quando già stavo ai primi capitoli»

Carmen Verde, unica campana in gara al premio Strega:
Carmen Verde, unica campana in gara al premio Strega:
di Generoso Picone
Domenica 2 Aprile 2023, 09:00 - Ultimo agg. 3 Aprile, 13:40
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A proposito di vuoti, di mancanze, di assenze. È proprio Carmen Verde a dare la notizia della morte di Ada D'Adamo, la scrittrice che aveva narrato la sua implacabile malattia in Come d'aria. L'altro giorno, alla Sala del Tempio di Vibia Sabina e Adriano a Roma, D'Adamo non c'era nel gruppo dove Carmen Verde riassumeva trama e senso di Una minima infelicità, il suo titolo edito da Neri Pozza entrato nella dozzina che il 7 giugno a Benevento diverrà cinquina e il 6 luglio a Villa Giulia si ridurrà a uno. Ora l'autrice riflette a voce alta sugli spazi bianchi e sui buchi da riempire che compongono la sua dice «poetica dell'incompiutezza». «Non conoscevo personalmente Ada, ma in fondo non stavamo parlando proprio di questo?».

Carmen Verde ha 53 anni, da Santa Maria Capua Vetere dove è nata ha avviato il suo giro d'Italia da funzionaria delle Poste per andare a Pesaro, Parma, Foligno e quindi a Roma, la città dell'attuale residenza.

Una minima infelicità è il suo esordio, sorprendente per bellezza di pagina e maturità di scrittura, dopo una discreta frequentazione di riviste e antologie, con un romanzo a quattro mani insieme ad Alex Oriani per Salani nel 2019, Tutta la vita dietro un dito. Più che un passato da scrittrice - e più di una autobiografia da consegnare perché «tenderei all'esibizionismo, sarebbe d'impiccio e toglierebbe tempo al raccontare storie» - lei si riconosce una infanzia di lettrice: da ragazzina si immergeva tra gli scaffali dell'edicola-libreria dei genitori per uscirne con testi che leggeva e poi ricopiava. Fermandosi al finale, quando si sostituiva all'autore originario per mettercene di suo.

Verde, con quale risultato?
«Pessimo. Ricordo che lo feci con Il grande Gatsby di Fitzgerald, un libro che amavo. Ne immaginai la conclusione e quando lo rilessi il tutto mi parve assai deludente e mediocre. Però quell'esercizio di lettura e trascrizione mi ha formato, mettendomi di fronte a scritture straordinarie che mi hanno insegnato ad acquisire la misura delle storie, la brevità anche materiale dei racconti, la necessità di esprimersi nell'essenzialità».

Il sentimento della misura pare essere protagonista di «Una minima infelicità». Annetta Baldini è una bambina la cui crescita è stata fermata da un difetto fisico, con una madre, Sofia Vivier, invece alta, bella e inaffidabile. Vivono così, si legge nel romanzo, «diverse forme di infelicità»?
«Ho scoperto l'immagine fondante del libro quando già stavo ai primi capitoli. È una fotografia di due donne che espone la differenza d'altezza nel vuoto tra le rispettive figure: ritraeva me da bambina, comunque già alta, e la zia adoratissima con la quale sono cresciuta, piccola di statura. Non c'è niente di autobiografico nel romanzo, però quel vuoto mi commosse perché ci vidi la dimensione dei grandi dolori delle creature piccole, gli spazi bianchi di Annetta che sarebbero stati riempiti con la scrittura».

Appunto da completare?
«Certo. Flannery O'Connor rievoca un episodio che spiega la questione dell'incompiutezza: una suora le invia un manoscritto che narra fatti stupefacenti ma in maniera disastrosa, O'Connor spiega che si riconosceva il suo spirito però lo stile era impossibile. Si poteva affermare che il manoscritto fosse brutto? No, per Flannery O'Connor era soltanto incompiuto».

Così ha lavorato sulla minima infelicità di Annetta e Sofia?
«Sono convinta che al pari di diverse forme di felicità esistano diverse forme di infelicità. È singola per ognuno, per Annetta e Sofia, perché ne facciamo esperienza attraverso piccole cose, i dettagli dell'esistenza, quelle incrinature nella vita dove l'infelicità si nasconde. Occorre, allora, mettersi accanto alla porta socchiusa per poter cogliere queste manifestazioni di dolore: come fa Annetta che conosce l'infelicità della madre nella stanza nella quale Sofia si ritira sempre più spesso: quando va a osservare scopre che la donna è semplicemente in attesa di qualcosa che non c'è e non arriverà mai».

Sofia è un personaggio che rimanda all'«Aracoeli» della Morante?
«È un debito che ho verso una delle scrittrici che sono dietro il mio romanzo: Elsa Morante, Anna Maria Ortese, Lalla Romano. Ma pure Herman Melville e il suo Bartleby e Edmond Jabès che indaga il tema della somiglianza e dice che è fatta di mancanze la somiglianza. I libri, del resto, sono costruiti con i libri, a un certo punto si acquisisce la consapevolezza che si è in quel linguaggio e in quella tradizione. È questo l'unico canone a cui credo di appartenere». 

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