Cina, futuro ed evitabili destini:
«Red mirror», lezioni dal nuovo mondo

Photo by Alvan Nee on Unsplash
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di Cristian Fuschetto
Venerdì 3 Luglio 2020, 21:00
8 Minuti di Lettura
Un violento acquazzone si abbatte sul centro di Pechino, per alcune ore le strade diventano fiumi e anche il cuore tecnologico della città, il quartiere di Zhongguangcun, è coperto d’acqua. Lì, in uno dei crocevia della Innoway tra strade a otto corsie e luminescenti grattacieli di colossi come Tencent, Baidu, Foxconn e più di 9mila tra aziende e startup in competizione per una fetta di futuro, sono tutti a riparo. Tutti tranne un ragazzo seduto su un bidone della spazzatura, stretto nella minuscola circonferenza di spazio vitale disegnata dal suo ombrello. Particolare: il ragazzo ha lo sguardo fisso sul suo smartphone e, molto probabilmente, sta continuando a lavorare.

Un paio di anni fa questa foto girava nella rete cinese a simboleggiare un’attitudine prima ancora che una condizione di vita, quella che ispira l’esercito dei millennial addetti all’industria digitale del Celeste Impero coinvolti in una missione che tutti li unisce e tutti li supera: condurre la Cina a essere la più grande potenza tecnologica mondiale.
 
Le lotte del nuovo mondo cominciano a Est
Nobili obiettivi richiedono grandi sacrifici, si sa, ma da un po’ di tempo anche nel Far East comincia a diventare sempre più controverso stabilire quali siano quelli sostenibili. Nei primi mesi dell’anno scorso, per esempio, ha fatto notizia la protesta avviata dai lavoratori cinesi del mondo hitech contro il “modello 996”, ovvero la giornata tipo di lavoro: dalle 9 di mattina alle 9 di sera per sei giorni la settimana. Avviata su una piattaforma di Microsoft per la condivisione di codici, la protesta è stata condivisa anche dai dipendenti dell’azienda di Bill Gates e poi, via via, di altri big occidentali dei settori tecnologici, come per resistere a una temuta “sinizzazione del mondo del lavoro”. Perché c'è questo di interessante e preoccupante, nelle punte avanzate dell'industria digitale non sono i diritti occidentali a contaminare quelli cinesi, ma i ritmi di vita cinesi a ispirare quelli occidentali. E allora succede, com'è accaduto per il manifesto contro il "996", che le lotte del nuovo mondo nascano a Est per poi contaminare l’Ovest, come se a tracciare le traiettorie del mondo che verrà ne fosse oggi una parte che fino a pochi decenni ne era semplicemente fuori.
 
Il futuro di Facebook è WeChat
L’Est anticipa l’Ovest e a confermarlo ci sono molti indizi. Il 15 giugno scorso, per esempio, WhatsApp, di proprietà di Mark Zuckerberg, ha introdotto in Brasile WhatsApp Pay, il primo servizio di pagamenti digitali della piattaforma. Il servizio è ora in fase di sperimentazione e dovrebbe consentire transazioni economiche configurando WhatsApp come una sorta di portale di ecommerce in cui i prodotti si potranno acquistare direttamente dal catalogo. Pagare sarà semplice come inviare un’immagine. E questo è solo l’inizio perché, come ha spiegato Zuckerberg in un lungo post, il futuro è l’“interoperabilità”, la possibilità di fare tutto quel che serve all’interno di un unico sistema operativo. Comunicare, aggregarsi, consumare contenuti, prenotare taxi e ristoranti, fare shopping online e offline, pagare bollette, tutto dovrà essere possibile fare tutto questo tramite un'unica app. Nella testa e nelle ambizioni del fondatore di Facebook nonché proprietario di WatsApp (e di Instagram), il futuro è quest’unico sistema operativo solo che, come Zuckerberg sa bene, questo futuro già esiste e si chiama WeChat.
 
Studiare la Cina per prepararci al futuro
WeChat è la super app che in meno di dieci anni ha fatto dei cinesi un popolo always connected. In alcune città della Cina, tanto per capirsi, il profilo WeChat vale già come un documento di identità, come a dire che se non sei connesso non sei reale. In Cina il mondo è dentro WeChat. Per uscire di casa basta non dimenticare il telefonino, tutto il resto è invece dimenticabile. Mettendo da parte il non trascurabile aspetto della gestione dei dati, quello che fa riflettere è che anche in questo caso è l’Ovest che guarda all’Est. Facebook vuole diventare WeChat e non il contrario, Zuckemberg vuole seguire il suo competitor Pony Ma (al secolo Ma Huateng), il fondatore della super app, e non il contrario. Mettiamocelo bene in testa, i modelli dei trend destinati a trasformare la nostra vita quotidiana si disegnano in Oriente e non più in Occidente. Sono in molti a sostenerlo, sono tuttavia in pochi  a illustrarlo con la scorrevolezza, il rigore e la semplicità con cui lo fa Simone Pieranni in Red Mirror. Il nostro futuro si scrive in Cina, edito da Laterza.
 
Shenzen, metafora di un sogno
Per anni corrispondente a Pechino dove ha fondato l’agenzia China Files, Pieranni ha potuto assistere al rapido e per molti versi sconvolgente passaggio del Celeste Impero da fabbrica del mondo a immenso hub tecnologico. «La storia di WeChat e della Tencent, l’azienda che ha inventato l’app – scrive Pieranni – racconta moltissimo di cosa sia la Cina oggi, di cosa noi potremmo essere domani, e chiarisce anche il modo in cui le aziende cinesi hanno saputo fare proprio il know-how occidentale per sfornare nuovi prodotti in grado di imporsi sul mercato globale». WeChat nasce a Shenzen, ora la Silicon Valley cinese ma fino agli anni ’70 un villaggio di pescatori, trasformato con le politiche di apertura di Deng Xiapoing in una “zona economica speciale” divenuta negli anni ’80 una grande citta manifatturiera in grado di offrire bassi salari, alta intensità di lavoro e prezzi stracciati, il mix ideale per innescare i fenomeni di dumping (la fuga delle grandi aziende da Ovest e Est alla ricerca di poli manifatturieri più convenienti) che abbiamo sperimentato fino a tutto il primo decennio del 2000. È a Shenzen che nel 1998 Pony Ma fonda la Tencent, ed è nel passaggio al nuovo millennio che la transizione di Shenzen (e poi di aree sempre più numerose della Cina) da polo manifatturiero altamente specializzato in polo di incubazione per aziende innovative con un proprio know-how. La stagione dell’“Assembled in China” stava per finire o, almeno, cominciava a convivere con la nuova stagione del “Designed in China”.
 
2008: il mondo crolla, la Cina svolta
La svolta avviene nel 2008, l’anno della grande crisi. Gli ordini dai mercati occidentali crollano e la dirigenza di Pechino decide di cambiare pelle al sistema economico. «Il mantra che accompagnava la crescita della società armoniosa – osserva Pieranni – cominciava a essere più qualità e meno quantità». Da sempre considerati portatori di innovazione, gli stranieri cominciano a essere catalogati con un’espressione, “China bashers”, che la dice lunga sulla nuova consapevolezza del popolo cinese sul proprio ruolo da giocare nella storia. “China bashers” significa “stroncatori della Cina”, una specie di grilli parlanti sempre pronti a criticare i difetti della Cina e in fondo incapaci di capire che da lì in avanti la storia la si sarebbe scritta lì, che il destino la Cina non lo avrebbe più subito ma dettato. Cosa che diventa chiarissima a tutti nel 2012 con l’arrivo al potere di Xi Jinping, che arriva addirittura a indicare una data per la conquista del primato tecnologico mondiale, il 2030. E sono molti i segnali che sembrano confermare i piani di Pechino.
 
Mao li voleva contadini, ora sono scienziati
Pieranni ne illustra i principali, ci porta per esempio a Xiong’an, la smart city delle smart cities (qui un video di presentazione dell'agenzia di stato Xinhua), ipercontrollata, automatizzata e interamente sostenibile, su cui sono stati investiti più di 600 miliardi di dollari, ci conduce a Dongguan, dove nel 2015 è nata la prima fabbrica interamente robotizzata, primo tassello del progetto “Replacing Humans with Robots” voluto da Xi Jinping nell’ambito del programma di innovazione industriale “Made in China 2025” e, nell’indagare la genealogia del primato cinese, mette in comparazione la spesa in ricerca e innovazione tra la Cina di oggi e gli Usa degli anni ’70 e ’80 mostrando con l’evidenza dei numeri come sia qui che vadano cercate le “chiavi del successo”. Dal 1940 al 1964 gli investimenti federali americani in ricerca sono aumentati di 20 volte, una crescita che ha cominciato a declinare agli inizi degli anni ’80 quando la spesa pubblica in ricerca scivola all’1,2% del Pil per arrivare allo 0,6% nel 2017. Il contrario di quello che è avvenuto in Cina, dove se negli anni ’60 per volontà di Mao gli studenti venivano sottratti alle università e mandati nelle campagne a imparare le virtù proletarie dei contadini, in seguito alle riforme di Deng Xiaoping hanno ritrovato centralità nei piani del Paese con risultati via via sorprendenti: dal 1990 al 2010 le iscrizioni all’istruzione superiore sono aumentate di otto volte, si sono moltiplicati i corsi di dottorato (oggi sono 29mila contro i 25mila statunitensi), si sono registrati costanti incrementi nella qualità dell’istruzione (oggi sei università cinesi sono nel ranking delle migliori 100 del mondo).

Il panopticon è un destino?
Tutto fantastico? Tutt’altro, Nella sua panoramica Pieranni non solo non nasconde ma indica puntualmente i numerosi vulnus democratici già insiti in un regime oligarchico e ora ingigantiti dagli strumenti tecnologici. Ne è un esempio su tutti il sistema di ingegenria sociale partorito negli anni ’70 dal padre della missilistica nazionale Qian Xuesen, nonché teorico di un piano di ingegneria cibernetica che avrebbe dovuto favorire una organizzazione totale della società per garantire armonia, ordine, pulizia, sicurezza e prosperità. Quei piani non sono rimasti nei libri, sono confluiti negli anni ’90 in un preciso progetto politico sotto il nome di “Golden Project” e tradotti recentemente in legge attraverso la “Pianificazione per la costruzione di un sistema di credito sociale”. È la cittadinanza a punti, un sistema in cui ogni cittadino o singola impresa ha un punteggio misurato sulla base della propria affidabilità in termini economici (pagamento multe o restituzione di prestiti), penale (condanne pendenti), sociale o civica (se non fai la raccolta differenziata o attraversi la strada fuori dalle strisce c’è sempre una telecamera che ti osserva) e sulla base del punteggio si ha diritto o meno a delle facilitazioni.
Il sistema dei crediti sociali non è ancora a regime a livello nazionale ma sono molti i progetti pilota. L’anno scorso Liu Hu, un giornalista, ha scoperto di essere nella lista dei “cattivi” quando l’app con cui acquista i biglietti aerei lo ha bannato. Liu Hu ha poi scoperto di essere stato iscritto nell’”Elenco delle persone disoneste” per una multa non pagata seguita a una condanna per diffamazione, multa che invece aveva prontamente pagato ma che il sistema non aveva registrato. Si può fare spallucce e pensare a un problema tecnico, ma ovviamente non è così. Se anche Liu Hu non avesse pagato quella multa è lecito domandarsi se sia giusto prevedere penalità accessorie a quelle previste dalla legge, se sia giusto affibbiare punizioni determinate di volta in volta da un “supervisore” chiamato a presidiare la moralità dei suoi cittadini con l’ausilio di miliardi di telecamere e sofisticati sistemi di tracing applicati ai dati che ciascuno di noi semina nell'infosfera. Non è certo questo quello che intendiamo vedere nel guardarci riflessi sul "red mirror". 
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