Enrico Deaglio, C'era una volta in Italia: più misteri che favole negli anni Sessanta

«Nei primi anni dei Sessanta si delineava un'Italia più avanti di coloro che la governavano»

Enrico Deaglio
Enrico Deaglio
di Generoso Picone
Giovedì 7 Dicembre 2023, 07:00 - Ultimo agg. 8 Dicembre, 09:01
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Se una traccia portante può essere individuata nell'affollato percorso che Enrico Deaglio attraversa in C'era una volta in Italia: gli anni Sessanta (con Ivan Carrozzi, Feltrinelli, pagine 608, euro 35), questa è rappresentata dalla conferma che ogni avvenimento è il punto di approdo di un processo complesso segnato da ombre e misteri, ma che occorre necessariamente ripercorrere e ricostruire. Allora, questa storia del Paese in chiave pop che mette in fila Fellini e Togliatti, Totò e Catherine Spaak, Francesca Spada e Pier Paolo Pasolini, Bikila e Olivetti, Coppi e Giovanni XXIII, Mattei e don Milani, Kennedy e poi Andreotti, Calvino, Capitini, Tambroni, la Vitti, Sciascia, Mina, Riva, Che Guevara, Marquez, Sindona, Buscetta e giù a venire fino al 12 dicembre 1969 di Piazza Fontana, si consegna come un utilissimo dispositivo di conoscenza di un periodo fondamentale non soltanto nella vicenda italiana.

Deaglio, è così?
«Dopo il progetto di Patria, i tre volumi in cui avevo raccolto cronologicamente quanto successo dal 1967 al 2020, mi è parso opportuno riprendere il filo attraverso un impianto più narrativo e andare così a sottolineare le storie dei visionari che avevano alimentato il sogno di un'Italia proiettata al futuro.

Le loro ambizioni e le loro sconfitte».

Il volume, ricchissimo di fotografie, si apre con il volto di Valeria Ciangottini quindicenne nella scena conclusiva di «La dolce vita» di Fellini. Il simbolo dell'innocenza pura e insieme dell'ambiguità maliziosa. Questi sono stati i 60?
«In “La dolce vita” c'è tutto. Il sogno di Fellini e la censura di Andreotti, la volontà di abitare una dimensione magica che si lasciasse alle spalle la stagione del neorealismo. Ricordo, oltre all'intervento della Dc sul film di Fellini, l'altro di Togliatti e Alicata su “Il gattopardo” di Luchino Visconti, che il Pci fu costretto a rivalutare soltanto dopo i giudizi di Aragon e Lukacs. Questo episodio ci offre il paradigma di una verità».

Cioè?
«Che nei primi anni dei Sessanta si delineava un'Italia più avanti di coloro che la governavano. Ci dice che l'autentico motore del miracolo è stato costituito dalla gente che dal Sud si muoveva verso le fabbriche di Milano e Torino. Insomma, che l'Italia è stata fatta dai terroni, non da Valletta».

Lei dedica uno spazio significativo a Napoli, recuperando dalla memoria la figura del sindaco Vincenzo Palmieri.
«Quando Kennedy arriva a Napoli, il 2 luglio 1963, accolto da una folla straordinaria, a mancare è il sindaco. Vincenzo Palmieri era stato uno dei medici che vent'anni prima aveva partecipato alla esumazione dei 22.000 soldati polacchi uccisi dai soldati di Stalin nella foresta di Katyn. Il che aveva prodotto la definizione di medico di Goebbels da parte del Pci, e a Napoli il Pci era quello raccontato dal Mistero napoletano di Ermanno Rea. Quel giorno era assente per opportunità, per non lasciarsi fotografare mentre stringeva la mano al presidente degli Usa».

Nel 1963 il miracolo degli anni Sessanta stava già declinando.
«Finisce presto. In Italia cala la crisi economica con i risvolti politici che comporta, però il miracolo della felicità promessa viene distrutto anche da eccezionali occasioni perdute. Che cosa sarebbe stato dell'Italia se Mattei non fosse stato ucciso, se Olivetti non fosse stato ostacolato, se Felice Ippolito non fosse stato addirittura arrestato? Avremo avuto il petrolio, i computer, il nucleare. Un'Italia diversa: come quella che sarebbe nata se la politica non avesse svilito il progetto di riforma urbanistica di Sullo».

Un'Italia che si sarebbe misurata con la modernità. Perché non è successo?
«Per la mancata epurazione dopo il fascismo, che ha visto scivolare nelle istituzioni personalità provenienti da quell'esperienza tanto da portare l'Italia ai limiti del colpo di Stato. Per la presenza costante e incombente della criminalità organizzata, mafiosa e camorristica, da Generoso Pope, Lucky Luciano a Michele Sindona. Per il grande abbaglio, che in tanti hanno voluto sostenere, di un Sud destinato a essere depresso e di un Nord industrioso».

Soprattutto, ma non soltanto nel Sud agiscono grandi figure di sacerdoti impegnati nella società. Lei attribuisce a queste presenze un ruolo decisivo.
«Sì. Animano esperienze da cui sfocerà il '68, la stagione dei giovani già protagonisti nei giorni dell'alluvione di Firenze e del terremoto nel Belice. Agiranno nelle università, da Trento a Torino e a Milano. Ma pure il loro sogno sarà spezzato, il 12 dicembre di Piazza Fontana e il 15 dicembre della morte di Pinelli apriranno una nuova fase».

Gli anni 60 innalzano la bandiera della pace con la marcia da Perugia ad Assisi promossa da Capitini. Un esempio per oggi?
«Quella marcia fu una scommessa di Capitini, vero pacifista difficilmente classificabile. Ebbe un successo incredibile e rispondeva all'appello lanciato da Giovanni XXIII dal Concilio Vaticano. Oggi l'ultima prova di pacifismo italiano è stata l'accettazione dell'invasione russa dell'Ucraina. Un caldo invito ad arrendersi. Spiace che sia così». 

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