Gormenghast, la trilogia del ritorno al castello-mostro

Gormenghast è il castello dei castelli, un paese labirintico dal quale non si esce

Gormenghast, la trilogia del ritorno al castello-mostro
Gormenghast, la trilogia del ritorno al castello-mostro
di Giuseppe Montesano
Lunedì 2 Gennaio 2023, 11:00
4 Minuti di Lettura

Nel 1946, immediatamente dopo la catastrofe della guerra mondiale, che a quanto pare non è ancora finita, comparve un romanzo in cui nella nebbia si stagliava un castello, una costruzione forse medievale o forse fuori dal Tempo, un misterioso edificio abitato da Nani e Principesse e Scrivani e Mostri e Cose parlanti: si intitolava Gormenghast, e lo aveva scritto nel corso di molti anni un inglese, un poeta e disegnatore e scrittore che si chiamava Marvyn Peake. E oggi, quasi come un regalo, l'Adelphi manda in libreria i tre romanzi già pubblicati, Tito di Gormenghast, Gormenghast, Via da Gormenghast, ora raccolti in un volume intitolato Gormenghast. La trilogia, in una edizione economica di 1170 pagine per 26 euro: economica ma, a sorpresa, impreziosita da cento belle illustrazioni di Peake.

A qualcuno potrà sembrare che tra Gormenghast e la Terra di mezzo del Signore degli Anelli ci sia aria di famiglia, ma mentre Tolkien racconta in una lingua artificiosa affollate favole moralistiche, Peake evoca con una lingua straordinaria un castello-mondo al di là del bene e del male e lo mette al centro di tutto. 

Quindi si tratta solo di un castello? No, Gormenghast è il castello dei castelli, un paese labirintico dal quale non si esce, un continente dove si è accumulata e incrostata ogni specie di rovina, un luogo costruito per distruggere il senso dell'orientamento e mandare in crisi qualsiasi ragionevole credenza nello Spazio e nel Tempo.

Il castello-mostro di Gormenghast ha interminabili corridoi che finiscono di colpo in stanze simili a segrete; il castello è come un intestino pietrificato, una città stratificata nei secoli di cui si è perduta ogni topografia, un cimitero delle Fontanelle dove Eduardo recita Beckett; il castello è un luogo dove l'entropia decalcifica ogni cosa, sfalda gli intonaci, accumula i detriti, alleva muffe e apre crepe nei muri e nelle teste dei personaggi. 

E i personaggi di Gormenghast sfilano davanti al lettore fastosi e favolistici, arcaici e rituali, spettrali e comici a partire dai nomi da commedia dell'arte: Sferisterio, Floristrazio, Carampanio, Ferraguzzo, Agrimonio, Sepulcrio. È come se per scrivere Gormenghast una tribù di drammaturghi elisabettiani si fosse messa a lavorare alla sceneggiatura di un film con la collaborazione di Edgar Allan Poe, con i consigli dell'autore di Alice nel paese delle meraviglie, con la consulenza di un buffone di corte e con l'aiuto di un computer che ha inghiottito secoli di manuali di arte retorica. E la lingua di Gormenghast fiorisce autonoma in volute e voluttà barocche, si arricciola in circonvoluzioni e cortocircuiti, si gonfia come un'onda lutulenta, e produce metafore come in un Cunto de li cunti colpito dal morbo stilistico di una darketta post-postmoderna, una scrittrice androgina che guarda Netflix e viaggia in internet. E la bizzarra, demenziale, comica, grandiosa, contorta, misteriosa poesia del rituale di Peake cattura pian piano il lettore che si avventura negli strati concentrici di Gormenghast, lo avviluppa nel sonno della ragione e poi, a tradimento, lo spinge al risveglio. 

Gormenghast ruota su una idea da romanzo gotico classico, e cioè che nel castello è penetrato il Male e bisogna sconfiggerlo: solo che l'ironia di Peake trasforma l'oppressione del Male nel gioco in cui il Male è solo l'illusionismo di un Demiurgo impotente. Allo tesso tempo, come un sogno che infetti la veglia, Gormenghast lascia un dubbio inquietante anche quando la sua comicità diventa teatrino di marionette: e se davvero, dietro il muro velato di umido dei garage dei nostri appartamenti o sotto le scale sbreccate delle nostre periferie universali, ci fosse un mondo dissennato, paludoso, barbarico, e fra un attimo sprofonderemo in un Gormenghast dove non si distinguerà più lo sghignazzo dal lamento? C'è poco da dire, aveva ragione l'autore di Arancia meccanica, Anthony Burgess: Gormenghast è un capolavoro, e una scatola di sorprese e delizie per il lettore. E che Gormenghast non sia ancora diventato un cult è strano: o forse è stata proprio la potenza della sua scrittura che ha impedito a Peake di diventare qui da noi una saga cult?

In ogni caso il cercatore di emozioni fuori dal Tempo e dallo Spazio è avvertito: le quasi milleduecento pagine di Gormenghast lo aspettano. Assorbito dalla lettura, il cercatore di emozioni non si accorgerà che la stanza in cui si trova è ormai disancorata dalla Terra, e lui ormai viaggia nelle remote regioni del mistero. E chissà se gli converrà ritornare con i piedi sulla terra! 

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