Resterà probabilmente irrisolta la domanda se l'iperdosaggio di racconto e autonarrazione di Napoli abbia irrobustito il corpo culturale della città o se, viceversa, lo abbia fiaccato. Se sia stato capace di dare vigore alla coscienza di sé della sua comunità di cittadine e cittadini oppure se, al contrario, la caratteristica immodificabile del raccontarsi e del ragionare continuamente sulle proprie peculiarità fino allo sfinimento abbia offuscato il senso critico dentro una coltre nebbiosa di retorica così fitta da impedire la percezione dei propri difetti o limiti.
Come che sia, è certo che poche città abbiano macinato instancabilmente, nei secoli, una tale quantità di storie. Da questo punto di vista il nuovo volume di «L'Uovo di Virgilio», nato dalla pagina settimanale composta dai testi di Vittorio Del Tufo e dalle immagini di Sergio Siano, domani in edicola in regalo con la copia de «Il Mattino», si presenta ai lettori e alle lettrici con la forza di un documento eccezionale della vitalità persistente dei mille racconti napoletani.
E infatti anche questa raccolta non mostra per nulla le cicatrici degli anni. Anzi, si rivela di un'attualità pulsante, a tratti perfino sorprendente per la prontezza. E questo perché Del Tufo ha sempre avuto davanti a sé il modello di una narrazione, come si diceva prima, avvezza alle sintesi, capace di trarre luce dalle psicologie, dai ritratti umani, dalle fortune e rovesci dei destini degli uomini invece che fissarsi alla semplice buccia delle cose, come un cattivo narratore sarebbe portato a fare temendo di annoiare il suo lettore. A mo' di esempio tra i molti possibili, scelgo il capitolo dedicato alla storia della Mensa dei bambini proletari di Montesanto, esperienza che evoca un periodo importante della storia della città, ancora dentro la scia del '68, in mezzo a una piccola borghesia di sinistra attiva e una classe lavoratrice di operai non ripiegata su se stessa ma profondamente attiva sul territorio. Ecco, il cattivo narratore avrebbe cominciato magari col fare esattamente questo, elencare punti, affastellare date, organizzare il racconto assecondando la cronologia dei fatti. Vittorio Del Tufo dà un colpo divertito di mano al tavolo buttando tutto all'aria e cominciando con un dettaglio cinematografico: un albero. Un albero di fico. Quello che era stato piantato nel giardino che apriva gli spazi della Casa dei Bambini di Montesanto, con un «androne, colorato di rosa, quasi sempre inondato di sole». Quasi. Un avverbio, cinque lettere per offrire a chi legge un vero e proprio movimento di macchina cinematografico di un androne a volte assolato, arso di sole, a volte piovoso, altre nuvoloso. Questo è il lavoro del mantice di un narratore: saper scegliere su quale fuoco soffiare per tenere al caldo il proprio lettore.