Morto Gianni Vattimo, addio al filosofo del «pensiero debole»

Fino alla fine, nelle sempre più faticate interviste, ha voluto sostenere che «la verità è legata al linguaggio. E che non ci sono fatti ma soltanto interpretazione»

Gianni Vattimo
Gianni Vattimo
di Generoso Picone
Mercoledì 20 Settembre 2023, 07:00 - Ultimo agg. 21 Settembre, 07:56
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Il nome di Gianni Vattimo scomparso ieri all'età di 87 anni nell'ospedale di Rivoli, presso Torino, dove era stato ricoverato per una malattia che da tempo lo affliggeva resterà inciso nella storia della filosofia contemporanea come quello di colui il quale aveva scardinato i dispositivi teoretici della metafisica tradizionale introducendo nel dibattito anche italiano l'eresia del pensiero debole, inteso come l'idea portante del post-moderno. Da quando, era il 1983, assieme a Pier Aldo Rovatti, Vattimo introdusse una interpretazione dell'ontologia ermeneutica che si contrapponeva alla trama tessuta dall'hegelismo, dal marxismo, alla fenomenologia, dalla psicanalisi e dallo strutturalismo, contestandone le tesi fondanti del nuovo inizio, ha rappresentato una figura di riferimento importante e una personalità dai risvolti contraddittori: uno dei filosofi italiani più tradotti all'estero, il maestro di una scuola che poi l'avrebbe visto procedere in solitudine, animatore di polemiche vivaci che si è declinata anche nella partecipazione attiva all'attività politica, ma pure un personaggio pubblico consegnato alle cronache per le posizioni assunte sull'antisemitismo, sulla religione, su Silvio Berlusconi, nella sua esistenza privata vissuta con il compagno Simone Caminada in un controverso rapporto finito anche nelle aule di Tribunale dove Caminada è stato condannato a due anni di reclusione per circonvenzione d'incapace.

Vattimo era nato il 4 gennaio 1936 a Torino, la città dove aveva abitato dal 1945 assieme alla madre una casa distante non più di cento metri da quella dove Friedrich Nietzsche aveva consumato gli anni della sua follia.

A Torino, dopo il liceo, aveva frequentato l'Università da allievo di Luigi Pareyson assieme all'amico Umberto Eco: come lui, e come Furio Colombo, una volta laureatosi, avrebbe lavorato ai programmi culturali della Rai. «Con Umberto siamo restati in contatto. Ci siamo frequentati fino all'ultimo. Non so però se l'ho davvero conosciuto. Per certi versi era imperscrutabile. Io non gli ho mai rivelato le mie tendenze sessuali. Una volta ebbi la sensazione che mi prendesse in giro. Siccome ero con un amico, mi disse: allora ti sei deciso».

Ma la filosofia costituiva l'attrazione principale e la specializzazione ad Heidelberg in Germania lo mise in contatto con il mondo tedesco e con Karl Lowith e Georg Gadamer. «È stata la scuola di Pareyson a formarmi», racconterà: «Rigorosa ma anche molto appartata. Lo scelsi perché era il professore più giovane della facoltà, esistenzialista e cattolico, amico di Karl Jaspers. Io, allora, ero sedotto da Adorno, dai tedeschi usciti dalla guerra. Se lei vuole studiarli veramente, si dedichi a Nietzsche, mi disse Pareyson. Era un personaggio complicato. Bisogna farsi le ossa con i maestri e poi lasciarli andare. Se non lo fai, finisci in gabbia». Lui le gabbie aveva cercato di distruggerle tutte: cattolico, di sinistra, nel 1975 fece outing confessando la sua omosessualità. Non si può non parlare della sua vita privata anche perché è intrecciata con scelte bioetiche come quelle relative al primo compagno Sergio Mamino che nell'aprile del 2003 muore per un tumore mentre Vattimo lo sta portando in Olanda per effettuare l'eutanasia.

Dal 1964 professore incaricato, dal 1969 ordinario di Estetica, insegamento che tenne fino al 1982 quando passò a Filosofia teoretica. Nel 1986 ideò e condusse il programma «La clessidra» su Raitre. Nel 1983, però, aveva pubblicato con Rovatti Il pensiero debole e la sua proposta connessa all'orizzonte teoretico nietzschiano ed heideggeriano aveva aperto il dibattitos sul postmoderno: sul declino delle grandi narrazioni, codificato in Francia da Jean-Francois Lyotard, in Francia, e sull'abbandono delle pretese di fondazione della metafisica tradizionale per giungere alla relativizzazione di ogni prospettiva filosofica o politica che intenda presentarsi come definitiva. «Credo di aver smantellato, decostruito, rottamato buona parte del pensiero forte. Sulla scorta di Nietzsche e Heidegger mi sono preso la briga di porre un freno alla filosofia come etica del dominio».

Di Heidegger, Nietzsche e Gadamer è stato tra i massimi studiosi in assoluto. Da maestro caposcuola ha registrato rotture e strappi con i suoi discepoli: con Maurizio Ferraris, per esempio, probabilmente il più strutturato e affermato tra i tanti allievi che qualche mese fa, in un articolo, si riappacificò. «Non credo di aver capito bene quell'articolo», confessò Vattimo. Direttore della «Rivista di estetica», socio corrispondente dell'Accademia delle Scienze di Torino ed editorialista per i quotidiani «La Stampa» e «La Repubblica» e per il settimanale «L'Espresso». È stato europarlamentere dal 1999 al 2004 per i Democratici di Sinistra, dal 2009 al 2014 con l'Italia dei Valori. Il soggetto e la maschera del 1974, Al di là del soggetto del 1981, La fine della modernità del 1985, Oltre l'interpretazione del 1994, Dopo la cristianità del 2002, Della realtà del 2012 i suoi titoli principale. Tenuti insieme da una linea coerente il cui senso si trova in una delle sue ultime affermazioni. Fino alla fine, nelle sempre più faticate interviste, ha voluto sostenere che «la verità è legata al linguaggio. E che non ci sono fatti ma soltanto interpretazione». 

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