Paolo Volponi, cento anni dalla nascita: il coraggio di essere contemporanei

La lingua dei suoi romanzi porta all'acme la potenza sotterranea e corporale della lingua italiana

Paolo Volponi
Paolo Volponi
di Giuseppe Montesano
Lunedì 5 Febbraio 2024, 07:00 - Ultimo agg. 6 Febbraio, 07:26
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Domani saranno cento anni dalla nascita di Paolo Volponi: uno dei pochissimi scrittori italiani di romanzi che si possa definire allo stesso tempo profondamente italiano e profondamente europeo. E forse bisognerebbe raccontare di come Volponi credette nell'idea, che era di buona parte della sinistra italiana dal dopoguerra fino agli anni Settanta e che comprendeva tra gli altri Calvino e Ottieri, di una società più giusta ed equa ma partendo dal duro lavoro industriale e dalla modernizzazione tecnica; raccontare che lavorò a lungo per Adriano Olivetti, dentro l'utopia di uno sviluppo del capitalismo che creasse profitto, però non ai danni dei lavoratori ma a profitto dei lavoratori; e di come a un certo punto capì, drammaticamente, che l'utopia di unire lo sviluppo del capitalismo con una vita più umana era tramontata.

Ma tutto ciò è lontanissimo, materia per storici che siano capaci di rispettare il dolore dei sommersi, mentre invece la sua opera di scrittore è vicinissima a chi interroga i libri come oracoli: ma solo a chi interroga libri che, come i suoi, vivono di eruzioni e inabissamenti che dissestano con ferocia sublime e oscura la superficie della vita e accendono l'incendio estetico della letteratura.

Chi tra gli scrittori di romanzi italiani della sua generazione può allineare capolavori assoluti come Corporale e La macchina mondiale, libri straordinari come Memoriale e Le mosche del capitale, e opere potenti come Il sipario ducale e Il pianeta irritabile?

Volponi non somigliava e non somiglia a nessuno.

Imparentato in qualche maniera oscura con la Morante di Menzogna e sortilegio e Pro e contro la bomba atomica, in legame discorde con Ottiero Ottieri e tutta la sua opera e con una parte dell'opera di Pasolini, con filamenti che portavano a Il padrone e a Il crematorio di Vienna di Parise, Volponi era tutt'altra cosa dai suoi parenti. La lingua dei suoi romanzi porta all'acme la potenza sotterranea e corporale della lingua italiana, come se la radice fosse ancora una volta Dante ma passato attraverso le sperimentazioni di tutto il Novecento europeo e mondiale: come una volta Montale parlò di Gadda come di un tradizionalista impazzito, così si potrebbe parlare di Volponi come di un manierista impazzito, dove in entrambi i casi «impazzito» vuol dire capace di onorare e reinventare la tradizione.

In Corporale un uomo afflitto dal mondo ma dentro l'agire del mondo, si isola in un luogo del centro Italia per prepararsi all'esplosione di una guerra nucleare: qualcosa che si ritrova in molti romanzi americani; nella Macchina mondiale un inventore «pazzo» di origine operaia e contadina sogna un'utopia tecnologica, e in Memoriale un operaio che ama la fabbrica entra in conflitto col suo stesso amore: come in molte opere del grande Platonov; nelle Mosche del Capitale un intellettuale, che lavora nel cuore del meccanismo culturale di una grande industria italiana di automobili, e che fantastica di cambiarla e cambiare la vita con la cultura, scopre di essere intrappolato come una mosca nella ragnatela: di nuovo come in molti romanzi americani.

Ma queste assonanze, che riguardano i «temi», dicono solo che Volponi stava al centro della contraddizione della contemporaneità ascoltando e guardando, ma non spiegano come in lui la proliferazione del raccontare si accende nello scontro ambiguo tra il sogno e la realtà, uno scontro le cui ferite sono i luoghi attraversati dalla prosa di Volponi: una prosa che è insieme la ferita e la possibile-impossibile cura, e che fa del piccolo mondo romanzesco italiano un mondo immenso senza tradire né la realtà né la verità.

La sua scrittura era imparentata con la poesia, e come dimostra il volume delle Poesie appena uscito per Einaudi, il poeta era l'altro lato del prosatore: in Con testo a fronte e in Nel silenzio campale Volponi sabotava la grande poesia classica italiana dall'interno, la sovvertiva con un furore post-gaddiano vicino per visionarietà concreta a Zanzotto più che a chiunque altro, inventava una poesia-racconto come un obelisco dissepolto su cui il passato è decifrato come futuro e viceversa: come scrisse Raboni in un suo saggio, che il lettore trova nel citato libro delle Poesie, Volponi ci appare non solo come il «più grande, forse, tra i prosatori italiani del secondo Novecento», ma anche «uno dei più forti e originali scrittori in versi» della sua generazione.

Un classico? Oh, no: piuttosto un extra-classico! Ma per un tempo, il nostro, che forse non ha bisogno né di extra-classici né di leggere. 

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