Stefano D'Arrigo nella Napoli delle «anime morte»

La storia di Cirillo Docore cresciuto tra i trovatelli dell'Annunziata

Stefano D'Arrigo
Stefano D'Arrigo
di Ugo Cundari
Venerdì 2 Febbraio 2024, 07:00 - Ultimo agg. 3 Febbraio, 07:03
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Tra i trovatelli dell'Annunziata ce n'era uno che è rimasto lì fino ad aver compiuto trent'anni nel 1859. Si chiamava Cirillo Docore, viveva in una soffitta, aveva n grado di istruzione superiore alla media e in cambio del vitto, dell'alloggio e di alcuni carlini nelle feste comandate lavorava gratuitamente come scrivano e aiuto-archivista nell'istituto della Real Beneficenza, l'ente che gestiva i beni dell'Annunziata e le compravendite del Regno. Non aveva mai perso la speranza di farsi adottare e quando arrivavano le coppie in cerca di figli continuava a mettersi in fila insieme ai piccoli trovatelli. Lungo il tragitto verso l'istituto a porta Capuana si fermava sempre, sospirando, davanti alle famiglie numerose riunite intorno a un banchetto di frutta o di polipi, «spasima per questa cosa che lui ignora e che il destino gli ha negato: la famiglia. Spasima per un padre, per una madre, dei fratelli, dei cugini, per una famiglia e per la parentela della famiglia. Spasima, anche, per una moglie, per dei figli. Così in un Reame come quello borbonico dove una famiglia è già di troppo, Cirillo se ne muore per avere due famiglie: quella di suo padre e la sua» scriveva, insistendo su questa brama di stirpe e discendenza, lo scrittore siciliano Stefano D'Arrigo (1919-1992) nel romanzo ritrovato tra le carte del Gabinetto Vieusseux di Firenze e fino ad oggi inedito, Il compratore di anime morte (Rizzoli, pagine 292, euro 30, a cura di Siriana Sgavicchia).

È una reinvenzione di Le anime morte di Gogol scritta tra il 1947 e il 1951, forse proposta senza successo nel 1976 a Camilleri per una riduzione teatrale.

Ha uno stile piano dalle sfumature grottesche e comiche, di tutt'altra natura rispetto allo sperimentalismo acrobatico del suo capolavoro, ma per alcuni illegibile, Horcynus orca del 1975. 

Alla vigilia di Natale la vita di Cirillo cambia. Un disperato padre di dieci figli ossessionato dal lotto e soprannominato Terno Secco (nomignolo preso a prestito da un racconto di Matilde Serao del 1889) sbarra la strada a Cirillo. Pretende da lui, che deve essere fortunato per forza perché è figlio della Madonna, dei numeri sicuri. Cirillo è costretto a stendersi su un materasso spuntato all'improvviso, a chiudere gli occhi, sognare i numeri e darli a Terno Secco. Dopo mezzora Cirillo si alza e, non avendo avuto nessuna visione, si inventa una quaterna. Dopo l'estrazione gira voce che sia azzeccata. La notizia arriva al principe don Ettorino di Margellina, soprannominato principe Dellotto, un personaggio che ha più di una somiglianza con l'eduardiano don Ferdinando Quagliuolo protagonista di «Non ti pago». Entrambi giocano ogni santo giorno confidando nelle intuizioni di sedicenti ispirati e interpreti di presagi, entrambi non vincono mai e farebbero di tutto pur di incassare almeno una volta. Il principe, immaginandosi vincite certe rivelate da Cirillo, corre ad adottarlo e lui si dimostra ben lieto di aver trovato famiglia.

Quando il giorno dopo il neopadre esige i numeri, Cirillo ammette di non poterglieli dare ma gli confida un altro sistema per arricchirsi. Comprare terreni e i contadini che ci lavorano, le cosiddette anime, a prezzi stracciati da nobili decaduti e rivenderli a prezzi decuplicati all'istituto della Real Beneficenza dopo aver promesso le giuste mazzette a tutti i funzionari corrotti coinvolti. E così, finanziato dal principe, Cirillo da Margellina parte per comprare terreni e anime, soprattutto queste perché è gonfiando il loro numero che si può barare meglio.

Sbarca in Sicilia ma l'impresa si rivela impossibile perché è iniziata l'impresa dei Mille di Garibaldi. Come per una illuminazione, Cirillo rinuncia agli imbrogli, si converte alla causa dell'Unità, indossa la camicia rossa e trova la donna giusta con la quale mettere su, finalmente, la sua famiglia.

All'intreccio l'autore mescola citazioni storiche e giudizi severi sul regime borbonico, duro, corrotto e arrogante, e sul popolo napoletano reo di «dimenticare i soprusi della sbirraglia e le «mazziate sul culo”, il vizio e la corruzione della nobiltà e dell'Amministrazione, la tragicomica condotta del Re Francesco II e la sfacciata avidità dei Ministri che lo circondano».

Suggestiva la descrizione dei moti antiborbonici raccontati con la partecipazione di un antifascista come l'autore che ha partecipato alle Quattro giornate di Napoli nel 1943. 

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