Alfano, storia familiare ​nella città che cambia

Un romanzo incalzante che culmina nelle Quattro Giornate

La lapide delle 4 giornate
La lapide delle 4 giornate
di Titti Marrone
Lunedì 4 Settembre 2023, 10:19 - Ultimo agg. 5 Settembre, 07:51
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«Una nipote nata negli anni del benessere economico raccoglie e introietta le memorie della nonna Cenzina di cui porta il nome, accorrendo al suo capezzale. La nipote, Vincenza Alfano, elabora il racconto in un romanzo dal ritmo ben calibrato, La guerra non torna di notte (Solferino, pagine 202, euro 16,50), e narra la storia di famiglia facendo proprio il ricordo di Cenzina affidato a un io narrante. L'effetto ottenuto è così quello di una rappresentazione speculare, in cui la giovane risulta riflessa nella voce dell'anziana con una tecnica di addizione di consapevolezza che proietta nella scrittura anche un più contemporaneo sentire.

Partendo dalle rievocazioni dell'anziana donna, e ricorrendo all'espediente del diario affidatole da una zia, Alfano ricostruisce la vita a Napoli dagli anni del consenso al fascismo all'esplosione delle Quattro Giornate.

La prospettiva da cui si guarda ai fatti è quella della ragazza Cenzina rimasta orfana di padre e affidata, da una madre indigente e anaffettiva, ad un ricco, generoso zio amante del lusso, affezionato alla sua figlioccia e deciso a farla sposare con un uomo facoltoso.

Di suo, Cenzina coltiverebbe il sogno di dedicare la vita alla musica, passione nata con le lezioni di pianoforte impartite a ogni ragazza di buona famiglia. Ma quell'aspirazione, avvertita in modo confuso, si arenerà di fronte alla scelta dello zio di darla in moglie a un agiato pasticciere che considera il talento della ragazza un marginale ornamento della sua grazia.

Gli avvenimenti pubblici lo sfaldamento del consenso al regime, le restrizioni dell'economia bellica, le distruzioni della guerra fanno da sfondo delle vicende private di Cenzina. A contrassegnare gli uni e le altre saranno i cambiamenti di case, da calata San Marco a largo Sermoneta a via Salvator Rosa, e i luoghi di una città dall'estate del 1943 sempre più sotto attacco.

Pubblico e privato s'intrecciano: ci sono la nascita delle figlie Sofia e Anna, un regime familiare in cui spunta la polvere di piselli, le fughe notturne per raggiungere i ricoveri, l'idea di lasciare Napoli da «sfollati» in provincia. E qui, con ostinazione irrazionale tipicamente attribuita al femminile dell'epoca, la leggenda familiare tramanda l'impuntatura di Cenzina a non voler andare a Montemarano. Più che una ostinazione, una premonizione benedetta, poiché il paese dell'Avellinese verrà raso al suolo.

Con l'avvicinarsi dell'8 settembre, e nei giorni che preludono alle Quattro Giornate, l'io narrante sovrappone sempre più lo sguardo della nipote a quello della nonna. Così sarà per il rapporto di Cenzina con la cameriera Addolorata diventata amica e confidente, e avverrà quando la donna si troverà di fronte due ebrei polacchi fuggiti dai tedeschi, decidendo di nasconderli.


La signora abituata al benessere e ai privilegi scopre di colpo in sé sentimenti di stanchezza nel confronti dei nazisti, percepisce nell'aria i lampi di rivolta in arrivo e diventa parte attiva nelle riunioni clandestine nell'androne di casa prima del coprifuoco. Tutt'a un tratto cerca contatti con persone molto lontane dal suo mondo come Maddalena Cerasuolo e fa proprio il grido di «Jatevenne» indirizzato ai tedeschi.

Il romanzo chiude con intonazioni da favola moderna il suo passo narrativo tipico delle novelle venute da lontano e tramandate per via orale, che dovrebbero servire a ingannare il tempo e invece finiscono per svelarlo.
 

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