Gli esempi ci sono/ Con i violenti da stadio non servono i tavoli ma le regole dello Stato

di Alvaro Moretti
Venerdì 28 Dicembre 2018, 00:33
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Chi sa annusare l’aria, in genere sulfurea, del mondo ultras aveva almeno un presentimento. E certe esalazioni si erano avvertite anche dalle parti del Viminale.
Non arrivano a caso i fatti di Milano, quell’aggressione con tafferuglio pesantissimo, fatale a Daniele Belardinelli, così tipico dei borderline del tifo estremo. Chi maneggia la materia con cura da decenni sa bene che c’è un unico linguaggio che certe frange, già espulse per decreto (Daspo) dallo stadio come luogo fisico, capiscono: la contrapposizione forte, senza deroghe, senza arretramenti. Lo Stato ricorda con fermezza che le regole in ognuno dei territori occupati dai capi ultrà e dalle loro bande le detta proprio lo Stato. Che le curve (o le via Novara zona San Siro) non sono luoghi franchi e i comportamenti al loro interno o esterno non seguono codici di onore presunto non scritti, ma fatti rispettare da capi eletti chissà per quale prodezza come fossero vertici di organizzazioni immateriali, eppure immanenti.

Nel mondo valse ad esempio per chi voleva il pugno duro della Thatcher, che piegò gli hooligans (sul suolo patrio, però: fuori dai confini liberi tutti). In Italia questa contrapposizione netta e forte di uno Stato forte con chi – intorno allo stadio – si fa forte s’è vissuta a targhe alterne. Da sempre, potremmo dire dall’omicidio Paparelli (1979) in avanti. E così la risposta all’ennesimo morto – stavolta uno caduto nella battaglia che aveva scelto di combattere con altri e contro altri ancora –è stata variegata: la prima sospensione per lutto del campionato nel 1995, in morte del tifoso genoano Vincenzo Spagnolo (coltellata di un milanista); poi quella del febbraio 2007, nella battaglia del Cibali morì il vicequestore Raciti. Altre volte la sospensione non è scattata o, peggio, è arrivata a macchia di leopardo come nel caso della morte di Sandri. Non ci si ferma, la riflessione dura fino a sabato: salve anche le vacanze dei calciatori, dunque. 

In Italia, però, è anche capitato che qualcuno – l’allora prefetto di Roma, Franco Gabrielli – decidesse di impostare il “confronto” all’Olimpico e in generale nella Capitale con una durezza inusitata. E con gesti che facevano “sentire” al contropotere ultrà che lo Stato poteva entrare nei templi inviolati (le curve) e piazzare divisori; che si potevano perseguire coloro che cambiavano, spesso a scapito di qualcuno, il proprio posto nel settore più caldo e iconico per le tifoserie di Roma e Lazio.
Scioperi e contrapposizioni, mugugni di società di calcio in questi casi sono all’ordine del giorno: quieta non movere. Ma di quieto in quel mondo c’è poco pochissimo, anche quando sembra così. E voglia di dialogare ancora meno. Ora il ministro dell’Interno, Salvini, annuncia un tavolo con capi ultrà e società di calcio: la domanda è però, quelli come Daniele Belardinelli che da Varese e da “daspato” accorre a San Siro e si trova coinvolto negli scontri coi napoletani insieme ai nizzardi che odiano per conto terzi, quelli che sono definiti da tutti capi ultrà, che accettano il rischio di tafferugli così gravi, con coltelli sguainati, mazze e roncole o auto impazzite, quelli ci saranno al tavolo?

L’ordine pubblico e la sicurezza nazionale, in altri casi, non vengono gestiti con questa collegialità. Se si intende chiedere per l’ennesima volta ai tifosi più buoni e ai club di “isolare” i violenti, beh si andrà nella direzione sbagliata: non spetta a loro farlo. Certi tipi, molti di quelli che sono finiti nei resoconti di questure e caserme, sanno come farsi rispettare se non c’è un potere più forte e legittimo a dettare – letteralmente – legge.
I richiami alla durezza nella gestione dell’ordine pubblico devono poter valere anche nel calcio, anzi intorno al calcio. Perché la morte di Milano, come quella di Raciti e Spagnolo (per non parlare di altri) avviene fuori dal recinto. E lì i club avranno gioco facile a dire che è un territorio al di fuori della propria giurisdizione, anche con lo stadio di proprietà. Che poi lo stadio di proprietà, come la vicenda Juve-‘Ndrangheta ricorda, non garantisce un bel niente. E di club assoggettati da clan e delinquenti sono piene le cronache parlamentari.
Le forze dell’ordine hanno - invece - intelligence che monitora moltissimi di questi signori; gente che l’adolescenza l’ha finita da un pezzo e usano l’aggregazione da stadio anche per i loro affari non leciti. Quando come è capitato a Roma si è scelta la via del monologo, i risultati sono arrivati. Con contorcimenti e critiche, magari, ma senza zone grigie che possono nascondere mostri pronti a spuntare fuori all’improvviso.
L’altra sera (prima e dopo) a Milano, comunque, in Inter-Napoli il peggio di loro sono riusciti a darlo tutti: dichiarazioni a vanvera e pretestuose del patron del Napoli sull’arbitro di Inter-Napoli; reiterati cori razzisti contro Koulibaly; incapacità di mostrare la forza necessaria per fermare la palla anche solo per qualche minuto; tafferugli in campo tra giocatori da bulletti. E pure lo scontro istituzionale tra procuratore Figc e capo degli arbitri su chi debba sospendere la gara in caso di cori reiterati.
Un altissimo dirigente dello sport italiano ci diceva che il primo Boxing Day del calcio italiano vissuto con molti stadi pieni doveva essere la giornata dei babbi natale in tribuna. Dentro e fuori, però, è stato un Santo Stefano riempito dai soliti spettri che il calcio si porta dietro dal 1979. Se non li caccia perderà appeal e competitività (piaceranno i buu razzisti nei mercati tv emergenti?), chiuderà gli stadi, lasciando i dintorni ai signori degli scontri ultrà.
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