Camorra, Cafiero De Raho: «Gli ordini dei boss al 41bis? Solo grazie ad agenti infedeli»

Camorra, Cafiero De Raho: «Gli ordini dei boss al 41bis? Solo grazie ad agenti infedeli»
di Gigi Di Fiore
Giovedì 2 Dicembre 2021, 08:29 - Ultimo agg. 15:18
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Il carcere duro per i boss mafiosi e i controlli sulle loro comunicazioni con l'esterno. Dopo l'inchiesta sul clan Gionta, ne parla il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho.

Procuratore Cafiero de Raho, lo strumento del carcere duro, il famoso articolo 41bis dell'ordinamento penitenziario, resta una misura efficace?
«Credo resti sempre uno strumento valido, per impedire che i capi delle organizzazioni mafiose continuino anche durante la detenzione a disporre azioni e reazioni. Uno strumento di restrizione delle comunicazioni esterne, che ha lo scopo di fermare il flusso di direttive e controlli dei capi sulle organizzazioni».

Come è possibile che ci siano capi al 41bis che continuano a lanciare messaggi all'esterno, come si è scoperto nell'inchiesta sul clan di Valentino Gionta?
«Sono tentativi di chi, per il ruolo mafioso di vertice ricoperto, prova a scardinare la rete fitta di controlli sulle comunicazioni.

Questi tentativi dimostrano la pericolosità di questi soggetti, che conservano un'illusione di impunità».

La Procura nazionale antimafia ha accertato molti tentativi di questo tipo?
«Qualcuno si, ma subito scoperti. Questi detenuti sono sottoposti al 41bis su richiesta della Dda territoriale e della Procura nazionale al ministero della Giustizia. Le relazioni sui colloqui sospetti, su comportamenti e gesti ritenuti dubbi, sono inviate alla Procura distrettuale e a quella nazionale, che avviano indagini di verifica».

Chi scrive le relazioni inviate alle Procure?
«Il gruppo operativo della polizia penitenziaria, un nucleo speciale che segue le attività e i comportamenti dei detenuti al 41bis. Visionano i video e ascoltano gli audio dei colloqui mensili con i familiari, guardano le immagini del detenuto in cella, sentono le intercettazioni nelle ore d'aria consentite con altri due detenuti. Esaminano gesti, movimenti di mani e occhi. Sono agenti specializzati, che poi relazionano su tutto».

Quanti sono i detenuti a regime di carcere duro?
«Sono 748, dislocati in cinque istituti penitenziari principali come l'Aquila, Sassari, Spoleto, Novara, Milano. E le difficoltà logistiche per sistemare questi detenuti sono molte».

Quali difficoltà?
«Oltre ai 748, c'è un numero di altri detenuti su cui la procedura per il 41bis è già stata approvata ma non ancora eseguita. Sono in attesa di carcere duro. E il motivo è che non ci sono strutture idonee a creare il necessario stato di separazione con i detenuti a regime ordinario».

Cosa succede per questi casi?
«Si attende che si liberino spazi, verificando, dopo i due anni previsti dalla legge, la situazione di chi è già a regime detentivo duro. Se sono superate le condizioni per mantenere qualcuno al 41bis, si può applicarlo su chi ne è in attesa».

Il vero problema nei controlli sono gli spazi di divisione tra detenuti al 41bis e gli altri?
«Sì. Non è possibile creare istituti penitenziari solo per detenuti al carcere duro, ma la coabitazione con gli ordinari deve tener presente che non va offerta alcuna possibilità di comunicazione a chi è al 41bis. Basta una parola ad alta voce raccolta da detenuti ordinari conniventi, per portare un messaggio all'esterno. Anche su questo bisogna fare attenzione».

Per l'attività di controllo sui 748 detenuti al 41bis bastano gli attuali agenti della polizia penitenziaria che ne sono incaricati?
«Sicuramente il nucleo speciale ha molto lavoro e fa l'impossibile. Pensi che, per fare un esempio, devono anche stare attenti che il detenuto, quando guarda la televisione che è sintonizzata su programmi fissi stabiliti dalla direzione del carcere per evitare messaggi in codice da eventuali tv private, non faccia commenti su qualche personaggio particolare. Potrebbero essere sintomo di intenzioni minacciose».

È capitato che, nonostante questi fitti controlli, siano filtrati messaggi e oggetti?
«Una volta è stato scoperto addirittura un telefonino a un detenuto al 41bis. Nel processo ndrangheta stragista a Reg

gio Calabria, sono state contestate nuove accuse al boss palermitano Giuseppe Graviano sulla base di registrazioni acquisite in carcere».

Come è possibile, con tante restrizioni, che dall'esterno arrivino oggetti o messaggi ai detenuti?
«Con complicità interne, che sono state scoperte. Gli agenti infedeli sono casi rari, che mettono però in pericolo i loro colleghi che fanno il loro dovere con scrupolo. Li espongono a rischi, come dimostrano anche le tante vittime di agenti penitenziari uccisi dalla criminalità organizzata».

Come valuta, in consuntivo, il sistema del 41bis?
«In maniera molto positiva. Basti pensare che è diventato un modello per molti Paesi stranieri. Anche in Sudamerica».
 

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