Covid a Napoli, è guarita la caposala della rianimazione del Cotugno: «Ho rischiato di morire ma ora torno in trincea»

Covid a Napoli, è guarita la caposala della rianimazione del Cotugno: «Ho rischiato di morire ma ora torno in trincea»
di Ettore Mautone
Lunedì 2 Novembre 2020, 09:00
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Dopo circa tre settimane di assenza torna da oggi in trincea, nella sua Rianimazione, Marinella Acanfora, caposala della terapia intensiva del Cotugno. Parliamo della gloriosa unità operativa diretta da Fiorentino Fragranza che per anni ha lavorato in sordina salvando vite su vite strappate alle meningiti e sepsi e che dalla primavera scorsa ha ingaggiato la battaglia contro il nuovo Sars-Cov-2.

 

Ora il virus lo conosce anche sotto la sulla sua pelle...
«Oggi sono felice, festeggio il mio compleanno e la mia rinascita.

Finalmente posso dire di esserne uscita dopo giorni interminabili di paura e di consapevolezza per quello che ho visto fare a questo virus e a questa malattia in questi mesi».

Come si è contagiata?
«Di sicuro sul lavoro. In una rianimazione la carica virale è altissima, il rischio costante ma se non si fanno errori non ci si contagia. Evidentemente quando per mesi non si riposa e lo stress aumenta, quando i team si riducono numericamente per andare a dare una mano in altri reparti, quando si è travolti da centinaia di ricoveri si finisce per sbagliare. Del resto basta poco, una distrazione ed è fatta».

Quando ha capito che il virus l'aveva infettata?
«Era il 13 ottobre: durante la notte mi è salita la febbre, ho avvertito un profondo malessere. Il 14 mattina ho fatto il tampone e dopo un giorno il verdetto, ero positiva. Toccava a me ma la mia mente era già oltre».

Dove?
«Pensavo a mia figlia che vive con me ed è asmatica».

Ha avuto paura?
«È un sentimento che affiora ma mi sono fatta forza: ho pensato: Mica posso morire di Covid. Io li curo i malati. Però potevo morire di altro perché sono un soggetto a rischio, soffro di una broncopneumopatia cronica, sono cardiopatica e non sono in peso forma».

Come si reagisce in questi casi?
«La mente viaggia senza fermarsi. Il dolore a volte era lancinante. Ho fatto la Tac e non c'era una grave polmonite. In ospedale non c'era posto e allora sono rimasta a casa».

Come si vive a casa da malato di Covid-19?
«C'è solitudine, isolamento, frustrazione per la massa di idioti che finiscono per commentare sui social quello che non conoscono, non immaginano e non vogliono vedere. Questa la sofferenza maggiore. Una pena anzi, per i danni che queste persone fanno più o meno deliberatamente».

Come si è evoluta la patologia?
«Sono stata fortunata perché ho risposto alle cure. I miei colleghi, i medici, mi chiamavano continuamente. Sono guarita. In altri casi con gli stessi protocolli purtroppo va male. Nessuno può sapere perché».

Cosa le ha fatto più male?
«L'indifferenza e la cattiveria di chi non capisce. L'incapacità di chi non vuole vedere la realtà ti mette di fronte al nulla. Come un foglio bianco in cui non c'è niente. Disturbi affiorano in queste situazioni di stress, di cambiamento epocali».

Come si affronta una crisi sanitaria del genere, una pandemia?
«C'è ancora tanto da fare, da organizzare. Bisogna smettere di inseguire l'emergenza e qualcuno deve fermarsi a riflettere e pensare. Pianificare. Un gruppo di persone competenti dovrebbe essere messo al riparo dal continente».

Per esempio?
«Oggi oltre gli ospedali c'è poco in termini di assistenza. Si è detto in questi mesi che la battaglia si vince con le cure sul territorio ma sono fatte di poche forze, male organizzate e con segmenti che non dialogano tra loro. Occorre una rifondazione della medicina territoriale. Si può fare e va fatto. Ammalarsi di Covid non è una passeggiata. Ovviamente ci sono tanti asintomatici ma sui grandi numeri il virus vince sempre anche con piccole percentuali. Bisogna aiutare chi sta a casa. Anche a domicilio si può morire di Covid. Fuori dagli ospedali c'è poco o nulla».

E adesso?
«Riparto da qui, dalla mia guarigione e dal mio compleanno. Ho tanto da fare e mi batterò affinché si sappia la verità di questa malattia, della sua cura, di quello che funzione e non funziona».

E poi?
«Troppi tuttologi e poi un po' di umiltà e buonsenso anche da parte degli esperti e scienziati che hanno fatto molti errori di valutazione sul piano medico ed epidemiologico. Il virus è sicuramente un microbo nuovo e quindi non sappiamo bene come e perché provoca questo profilo di malattia in alcuni sì e in altri no. Nulla può essere scontato. Bisogna aiutare le persone che hanno bisogno di assistenza e sostegno. Serve umanità».

Una cosa che invece ha funzionato nell'emergenza?
«Nel mio caso l'informazione: non avevo ancora avvisato l'Asl ma già tutti sapevano che ero ammalata di Covid».

Ne usciremo?
«Serve molta intelligenza, pazienza e unità dove vedo idozia, insofferenza, egoismo. Questo virus è una prova per la tenuta dell'umanità».

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