Napoli, agente ucciso durante un raid in gioielleria: «C’è un terzo uomo, favorì gli assassini»

Oggi udienza dinanzi al riesame per i due indagati finiti agli arresti a trentotto anni dall’assalto

Attianese
Attianese
Leandro Del Gaudiodi Leandro Del Gaudio
Lunedì 11 Marzo 2024, 23:40 - Ultimo agg. 13 Marzo, 07:30
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Aveva un vestito elegante, tirato di tutto punto, di quelli che non passano inosservati. Giacca, cravatta, vestito grigio scuro, scarpe nere, capelli ben pettinati e occhiali da vista sul naso. Un figurino. Ma anche il complice di una rapina finita nel sangue, quella culminata nella morte di un poliziotto che provò a sventare il colpo. È al centro di una caccia all’uomo che va avanti da 38 anni. Ora più che mai. È stato lui, l’uomo elegante, a farsi aprire la porta, spacciandosi per un cliente, per una persona per bene, insospettabile.

Era il 4 dicembre del 1986, 38 anni fa, appunto. Parliamo dell’omicidio del sovrintendente di polizia Domenico Attianese, icona della Napoli che reagisce al crimine, della città che si oppone alla violenza e alla arroganza predatoria. Ricordate la storia? Partiamo dalla fine. Lo scorso cinque febbraio, la Procura di Napoli ha chiesto e ottenuto gli arresti dei due presunti responsabili del delitto. A finire in cella sono Giovanni Rendina e Salvatore Allard, raggiunti dalla misura cautelare firmata dal gip Luca Della Ragione, al termine di una traiettoria investigativa fondata su riscontri concreti. Inchiesta condotta dal pm Maurizio De Marco, sotto il coordinamento del procuratore aggiunto Pierpaolo Filippelli, chiara la ricostruzione investigativa: quel 4 dicembre di 38 anni fa, Attianese era libero dal servizio ma intervenne in una gioielleria di Pianura per sventare una rapina.

Epilogo drammatico: i banditi uccisero Attianese e fuggirono. Un cold case risolto solo in parte, dal momento che quel giorno - in quella gioielleria - i banditi erano tre. Due sono stati presi, un terzo manca all’appello. È l’uomo elegante. Si lavora a un identikit, le indagini sono ancora aperte. Sono diverse le testimonianze agli atti. Fu lui ad entrare, riuscendo a simulare la chiusura della porta blindata, per poi distrarre i commercianti fingendosi interessato ad acquistare un paio di orecchini per un regalo di Natale. Una mossa strategica che diede il via all’ingresso dei due complici. Una vicenda che oggi approda dinanzi al Tribunale del Riesame. Contro i due presunti assassini, ci sono due elementi di prova raccolti in questi anni: da un lato le impronte digitali, isolate 38 anni fa; dall’altro la testimonianza acquisita di recente dalla figlia del poliziotto scomparso.

Due aspetti cruciali, secondo il gip Della Ragione: da un lato, con i nuovi strumenti tecnici, si è arrivati alla profilazione dei due indagati, cosa che 38 anni fa non era stato possibile realizzare. 

In più, a leggere le carte dell’inchiesta, i due indagati hanno dichiarato di non essere mai entrati in quella gioielleria, dicendosi completamente estranei ai fatti. Poi ci sono le testimonianze. Centrale quella della figlia della vittima. Sentita pochi mesi fa, ha messo a fuoco particolari indelebili della sua esistenza e ha riconosciuto i due indagati. Nel 1986, era una ragazzina e avvisò il padre che nel negozio di un’amica era in corso una rapina. Ha spiegato agli inquirenti: «Non dimenticherò mai cosa accadde sotto i miei occhi», ha esordito fornendo particolari sulle fattezze fisiche dei due soggetti oggi detenuti. Un’inchiesta che resta aperta, manca all’appello il terzo uomo, la caccia è aperta. 

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