Napoli, la confessione del killer di camorra: «Così ho ucciso un innocente: chiedo perdono»

In aula Antonio Pipolo: ho ammazzato un lavoratore in casa del boss di Ponticelli, è stato un attimo

La Procura della Repubblica
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di Leandro Del Gaudio
Lunedì 13 Novembre 2023, 13:09 - Ultimo agg. 14 Novembre, 07:30
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E' stata una frazione di secondo. Aveva appena ucciso Carlo Esposito, reggente del clan De Martino di Ponticelli, quando si è materializzata davanti a lui la sagoma di un altro uomo.

«Ho fatto fuoco e l'ho ucciso. So di aver ammazzato una persona estranea alla camorra, so che le mie parole non servono a niente, che ho tolto una persona alla sua famiglia, per la quale non ci sarà né un Natale né un compleanno, ma chiedo perdono».

L'uomo ammazzato si chiamava Antimo Imperatore che, una mattina di due estati fa, stava facendo piccoli lavori di manutenzione all'interno della casa di Carlo Esposito, presunto boss di Ponticelli. Imperatore non c'entrava niente con la camorra e le sue dinamiche sanguinarie, fu colpito a morte nel corso di una scena ricostruita pochi minuti fa dinanzi ai giudici della terza sezione di corte di assise di Napoli.

Aula 214, lunedì 13 novembre, tensione a fette. Dal monitor della videoconferenza parla Antonio Pipolo, 30enne reo confesso. E' stato esponente della camorra di Ponticelli, ha svolto un ruolo decisivo nella guerra tra clan che insanguina il quartiere. Come ha spiegato ai giudici, ha deciso di ammazzare Carlo Esposito, dopo essere scampato ad un agguato organizzato all'interno di una discoteca nell'area occidentale.

Una ricostruzione a tinte pulp, che passa dalla notte in discoteca, in cui comprende di essere nel mirino dei suoi ex alleati, all'agguato nel bunker dei De Martino, dove riesce ad entrare nella casa del reggente per ucciderlo, facendo poi fuoco anche contro un incolpevole manovale. 

Le lacrime solcano sul viso di parenti e amici di Imperatore, costituiti parte civile e assistiti dal penalista napoletano Alessandro Motta. 

Ma torniamo all'interrogatorio reso dinanzi ai giudici della terza assise. Pipolo ha risposto alle domande del pm Simona Rossi, titolare delle indagini assieme alla collega Alessandra Fratello. Ha chiarito i motivi che lo hanno spinto a concepire e realizzare l'assalto al bunker del boss. C'erano da poco stati gli arresti per l'omicidio di Carmine D'Onofrio, in quel periodo consumavo molta cocaina e sentivo che c'era chi non si fidava più di me. Ho capito che volevano eliminarmi, perché mi chiesero con insistenza di organizzare una serata in discoteca. Chiamai un amico di un locale di Posillipo, prenotai un tavolino, ma quando partimmo per raggiungere il locale, mi dissero di cambiare meta. Nella mia auto, c'erano due soggetti dei Quartieri spagnoli, che mi dissero di seguire un'auto che viaggiava davanti. Andammo in una discoteca che si trova nei pressi dell'ippodromo di Agnano, quando entrai nel locale, rimasi impressionato da una serie di particolari. Accanto a me, si avvicinò un ragazzo dei Quartieri spagnoli, che non mi mollava un attimo. Era insistente nello starmi addosso, simulando confidenza e amicizia che non riuscivo a spiegare. Rimasi seduto per un poco, sempre con questo giovane accanto, quando venne a salutarmi una ragazza».

Un punto decisivo, nel racconto del pentito, che sostiene di essere stato salvato da questa ragazza, evidentemente consapevole che la serata al night era niente altro che una messa in scena. Probabile che volessero simulare un litigio in pista per consumare il delitto e uccidere un personaggio diventato improvvisamente scomodo. Ma torniamo al racconto in presa diretta. «Quella ragazzza, senza farsene accorgere, mi diede due pizzichi sulla gamba, facendomi un'espressione con gli occhi, come per dirmi di allontanarmi da quel posto. A questo punto lasciai la discoteca, ma capii che per me era stato organizzato un piano fin nei particolari. La mia auto era infatti bloccata da un'altra auto, che per altro avevo riconosciuto, perché era una vettura che avevo spostato per conto dei De Micco, qualche giorno prima. Era la conferma che si trattava di un parcheggio finalizzato a non farmi allontanare dal locale. Entrai in auto, provai a fare retromarcia, ma era tutto inutile. Nel frattempo vidi sopraggiungere quello che si era incollato a me. Mi accorsi che era armato, capii che si trattava di un agguato. Aveva la faccia pallida, livida, come quella dei killer. Ma sono stato fortunato, perché accanto a me un'auto si era spostata, consentendomi di azzardare una manovra che mi ha consentito di scappare».

Non è finita. Una volta a casa, Pipolo cerca contatti in videochiamata con il boss De Micco, ma anche contatti con Salvatore Barile, ritenuto boss dei Mazzarella. Da qui arriva una conferma indiretta: «Capii che dovevo allontanarmi da casa, scappare via da Napoli, che ero un uomo morto». Poi la decisione. Pipolo si reca a casa di un uomo agli arresti domiciliari, che custodiva  le armi del clan: «Era ai domiciliari, quindi era fidato come custode delle armi». Dunque? «Mi faccio dare una pistola e vado a casa di una mia conoscente, che gestisce una piazza di spaccio. Le chiedo di accompagnarmi da Esposito e mi nascondo in auto, riuscendo a superare le vedette. Esco dall'auto, salgo a casa di Esposito e trovo la porta aperta. Esposito resta fermo e gli chiedo di farmi il caffè, così tanto per smorzare la tensione. Appena si muove gli sparo e lo ucciso. Un attimo dopo, vedo la sagoma di una persona, purtroppo la uccido. Chiedo perdono, perché ho strappato una persona per bene dall'affetto dei suoi cari, sapendo di non meritarlo».  

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