Salvator Mundi, la sentenza a Napoli: «Un affare da trenta milioni»

Dal dipendente della cappella del tesoro al magnate svizzero: ecco tutti i ruoli del furto al Doma

Il Salvator Mundi
Il Salvator Mundi
di Leandro Del Gaudio
Martedì 6 Giugno 2023, 07:26 - Ultimo agg. 7 Giugno, 18:40
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Una figura che resta sullo sfondo, quella del magnate svizzero. Viene evocato nel corso di alcune conversazioni intercettate tra i complici del furto, ma finisce anche per essere citato nel corso di una delle trattative condotte per smerciare un’opera d’arte trafugata da una basilica napoletana. «È lui - dicono a proposito del magnate svizzero - che si è fatto vivo e che è disposto a investire fino a 30 milioni di euro».

Parliamo del furto del Salvator Mundi, il dipinto di scuola leonardiana, probabilmente risalente a un periodo compreso tra il Cinquecento e il Seicento, che venne trafugato in pieno lockdown da una sala della basilica di San Domenico Maggiore.

Un furto risolto grazie a una brillante operazione della polizia, che è riuscita a recuperare il dipinto, ma anche a circoscrivere le responsabilità individuali dei soggetti condannati in primo grado.

A fare da basista, secondo i giudici, è stato Pasquale Ferrigno, che incassa 5 anni e 4 mesi: era dipendente del museo, aveva accesso alla sala del Tesoro della Basilica, grazie a una chiave passpartout; 5 anni e 4 mesi anche per Tommaso Boscaglia è invece il soggetto che ha materialmente asportato il prezioso dipinto della Sala del Tesoro della Basilica di San Domenico Maggiore. Secondo le indagini, Pasquale Ferrigno avrebbe anche progettato un colpo simile all’interno dell’istituto Smaldone alla Salita Scudillo. È lui il protagonista di una sorta di siparietto, quando viene portato in Questura per un pretesto (una contravvenzione) e viene fatto accomodare in una stanza alla cui parete è affissa una riproduzione del Salvator Mundi. Non sa di essere intercettato quando alla moglie confida di «essersi sciolto» quando si è trovato di fronte al «dipinto oggetto di trafugamento».

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Cinque anni e 4 mesi ance per Marco Fusaro, che avrebbe svolto un ruolo attivo, rimanendo collegato a Ferrigno e Boscaglia nella realizzazione del piano: «L’ha preso lui fisicamente e l’ha dato a noi...», dice in una intercettazione. Antonio Mauro incassa invece 4 anni e 4 mesi, per aver svolto un ruolo in materia di ricettazione. È lui ad essersi messo all’opera per contattare Maria Licciardi e proporre l’affare «del secolo», legato proprio alla compravendita del dipinto rubato, che - nelle more - era stato trasportato in sella a uno scooter e condotto in un quartiere di Napoli est. Stando ai giudici, Maria Licciardi non avrebbe avuto alcuna responsabilità in tutta l’operazione, essendosi limitata a ricevere passivamente una richiesta (quella dell’acquisto del quadro) mai presa in considerazione seriamente. Cinque anni e sei mesi per Domenico De Rosa, che avrebbe svolto un ruolo di intermediario tra i principali responsabili del furto e della ricettazione: dava informazioni, come se fosse stato un anello di congiunzione per la collocazione dell’opera. 

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