Non aveva bisogno di annunci. Giorgio Ascarelli, presidente dell'Associazione Calcio Napoli, agiva. Il calcio, in quel 1929, era diventato con il fascismo uno sport per professionisti, con tanti spettatori. E il Napoli, al via di un ciclo vincente con l'allenatore inglese William Garbutt e stelle in squadra come Sallustro e Vojak, aveva bisogno di un campo stabile. Paradossale che, per le gare casalinghe, si dovesse chiedere il permesso alle autorità militari proprietarie dell'«Albricci» all'Arenaccia. Per guardare al futuro, era indispensabile uno stadio da gestire in proprio. E Ascarelli, primo grande presidente della storia azzurra, ci pensò.
Figlio di Salomone Pacifico Ascarelli, Giorgio ne aveva ereditato l'azienda tessile a Napoli dove la famiglia, di fede ebraica, si era trasferita da Roma.
L'area scelta fu il Rione Luzzatti, quello reso famoso da Elena Ferrante. Non si fece spaventare, Ascarelli, dalle diffide della duchessa di Miranda che si lamentò con il prefetto Giuseppe Barattolo dell'occupazione di una parte della proprietà della madre marchesa Maria de' Medici per la costruzione di un campo sportivo. Sanate le concessioni, Ascarelli incaricò l'ingegnere Amedeo D'Albora di progettare l'impianto. Fu pronto in sette mesi. Tribune in legno, capienza per 20mila spettatori, nome iconografico: «stadio Vesuvio». La partita inaugurale fu il 23 febbraio 1930. Napoli contro la Juventus del presidente Andrea Agnelli. Pienone. Ascarelli, emozionato, vide una parte dell'incontro con la tifoseria più accesa. Finì 2-2, pomeriggio da incorniciare. L'ultima gioia del presidente che morì di peritonite 17 giorni dopo. In suo nome, lo stadio, che era di proprietà del presidente, fu ribattezzato «Vesuvio-Ascarelli». Lo ereditò la moglie che lo donò al Napoli, passato alla presidenza di Giovanni Maresca duca di Serracapriola. Fu creata una società di gestione, la Campo Napoli, che non ebbe vita facile per difficoltà economiche. In crisi, fu affidata al liquidatore Arturo Collana.
E intervenne il Comune che propose l'acquisto dello stadio. I tempi erano favorevoli, grazie all'avvicinarsi dei Mondiali del 1934 da disputare in Italia. Il fascismo voleva che si giocassero anche a Napoli, ma occorreva un impianto pubblico. Il prefetto Barattolo, che era anche alto commissario per le opere pubbliche, favorì l'acquisto del Comune che pagò lo «stadio Vesuvio-Ascarelli» 700mila lire. La Prefettura, che appoggiò l'acquisto, lo motivò come «una delle più importanti iniziative che interessa l'educazione fisica napoletana e il turismo». L'alto commissario si occupò del restyling in vista dei Mondiali: 6 mesi di lavori, 1200 operai, costi di 4 milioni di lire per 40mila posti. Inaugurazione in pompa magna il 27 maggio 1934.
A Napoli si giocò la finale per il terzo posto Germania-Austria. Lo stadio era diventato una mega-struttura in cemento armato e, ben 4 anni prima delle leggi razziali, il fascismo rimosse il ricordo di Ascarelli per ribattezzarlo «Partenopeo». Era stato lungimirante il presidente Ascarelli, ma di quell'opera è rimasto solo il ricordo: le bombe della seconda guerra mondiale lo resero uno scheletro. Il Napoli avrebbe ricominciato nello stadio del Vomero realizzato dal fascismo. Poi, il San Paolo.