Addio a Francesco Rosi: sfidò il potere con la verità

Addio a Francesco Rosi: sfidò il potere con la verità
di Titta Fiore
Sabato 10 Gennaio 2015, 23:37 - Ultimo agg. 23:38
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Di sé, del suo modo d’intendere il cinema, che per lui era tutt’uno con la vita, Francesco Rosi diceva: sono come un vulcano, a volte dormiente, a volte sul punto di esplodere. E quelle ”esplosioni” erano i film, i suoi straordinari film che entravano nella realtà con il rigore dell’inchiesta e la potenza drammaturgica del narratore di razza. Del suo talento nell’affrontare i punti nodali della società, della politica e del costume italiani aveva fatto metodo, e di quel metodo è stato maestro indiscusso.

Le notizie e quel che c’è dietro, l’analisi oltre il racconto: far venire fuori la verità andando sui luoghi e coinvolgendo sul set gente ”informata dei fatti”. Un investigatore, un combattente: Francesco Rosi era così. Mai incline al potere, sempre affascinato dalla ricerca della verità. Animato dalla passione civile, sostenuto da un raro genio cinematografico, il regista che ieri si è spento a Roma a 92 anni, ha indagato nel corso della sua prestigiosissima carriera i nervi scoperti del sistema Paese. Ha raccontato la camorra e la mafia, la mancanza di solidarietà tra Nord e Sud, il golpe, l’Olocausto, il terrorismo. «Ossessionato dal presente», ne ha cercato per tutta la vita le radici antiche, andando a scavare nei documenti, nelle pieghe della cronaca, nel non detto delle verità ufficiali. Ogni film diverso dall’altro, per stile, argomento e approccio, pur facendo parte di un’unica, grande inchiesta sulla realtà italiana: «Volevo raccontare il Paese per come cambiava sotto i nostri occhi». Un’impresa titanica. E per farlo, aveva trovato, Rosi, il mezzo ideale nel cinema, o meglio nel cinematografo, come lo ha sempre chiamato, con un piccolo vezzo etimologico, per distinguere il contenuto dal contenitore. E se l’era andato a cercare là dove si fa, a Roma, dove c’è l’industria, ma senza perdere mai perdere il contatto con la propria cultura e con Napoli, la sua fonte d’ispirazione, il suo osservatorio privilegiato, il suo laboratorio creativo, la città del cuore dove non ha mai smesso di tornare.

Il cinema era entrato nella sua vita fin da bambino, grazie a una foto che il padre gli scattò ispirandosi a Jackie Coogan, il protagonista del «Monello» di Chaplin. Fu grazie a quel papà esperto e schivo, grande disegnatore e caricaturista, e a zio Pasqualino, capoclaque nei teatri di rivista, e a zia Margherita, che somigliava a Ginger Rogers e ogni giovedì lo accompagnava al cinema, che il piccolo Francesco scoprì la magia dei primi film. E fu al liceo Umberto, con i compagni Raffaele La Capria, Antonio Ghirelli, Giuseppe Patroni Griffi, Maurizio Barendson e Giorgio Napolitano, solo di qualche anno più giovane, che cominciò a guardarlo con altri occhi, a scoprirne tutte le potenzialità di linguaggio. Furono anni di grandi letture, Gaetano Salvemini e Giustino Fortunato, anni di passioni culturali coltivate nei palchetti del teatro Mercadante, anni di guerra e di resistenza, rivissuti con sorprendente precisione nel bel libro-biografia scritto a quattro mani con Giuseppe Tornatore nel 2012: la nonna con il revolver, i quattro mesi di mare e i bagni a Posillipo davanti a Palazzo Donn’Anna dove si cementò l’amicizia con Dudù La Capria, il nonno sarto che gli cucì il primo smoking, indossato, sempre quello, per ricevere i tanti premi di una carriera straordinaria, le prime uscite con le ragazze, la paura del futuro, il ritorno a Napoli dopo i bombardamenti in una notte livida, a piazza della Ferrovia, con i cumuli di macerie illuminati dai fari dei camion americani diretti a Cassino e quella sigaretta condivisa con un pescatore che gli raccontò delle Quattro Giornate, la sorpresa gioisa del portinaio: «U’, ’o signurino Franco, papà e mammà pensano sempre a voi».

Con la pace arrivò l’esperienza della radio, poi la decisione di trasferirsi a Roma, nel ’46, l’incontro con Ettore Giannini, il regista di «Carosello napoletano», le prime esperienze al cinema con Goffredo Alessandrini per «Camicie rosse» e soprattutto l’incontro sul set di «La terra trema» con Luchino Visconti: ancora gli bruciava, a distanza di mezzo secolo, il rimprovero che il regista gli fece per insegnargli l’importanza della precisione, del rigore professionale. Quella volta, sulla scogliera di Aci Trezza, Rosi pianse per l’umuliazione, ma anche da un piccolo trauma può nascere un legame di amicizia profonda. E tanto tempo dopo, in un’indimenticabile notte di Natale, fu proprio Visconti a fargli compagnia in ospedale aspettando che venisse al mondo sua figlia Carolina.

Nel ’58 il vero esordio con «La sfida», il film sulla camorra dei mercati ortofrutticoli che lo segnala subito come uno dei migliori talenti della sua generazione, poi «I magliari» con Alberto Sordi, sull’emigrazione meridionale in Germania, poi la grande stagione del cinema d’impegno civile, l’exploit di «Salvatore Giuliano», il film che il ministero dello Spettacolo aveva deciso non sarebbe mai uscito e invece vinse l’Orso d’oro al festival di Berlino e Moravia scrisse che Rosi aveva inventato una maniera nuova di narrare. «Le mani sulla città» è del ’63: quando lo proiettarono, alla Mostra di Venezia, fece l’effetto di una bomba. La sua spietata denuncia della corruzione mascherata da boom economico, della speculazione selvaggia che stava trasformando il volto di Napoli così come delle altre città italiane divise critica e pubblico. «I personaggi e i fatti sono immaginari, ma autentica è la realta che li produce», specificò l’autore nella didascalia di quel capolavoro impastato di speculazione, cattiva politica e criminalità. Da allora, da quella storia di Malanapoli scritta con La Capria e premiata con il Leone d’oro, Rosi diventa anche una voce necessaria da interrogare, da ascoltare ogni volta che la città torna ad essere, drammaticamente, argomento di cronaca. «Volevo denunciare lo stravolgimento del territorio, ero attratto dal centro storico, me ne andavo in giro come un turista, con la guida in mano, per capire. Avevo quest’idea: mostrare come un gruppo di speculatori era riuscito a cambiare la fisionomia di Napoli. E con quali sistemi. I miei film, in fondo, hanno il merito di aver anticipato certi problemi. Qui, ad esempio, si parlava di conflitto d’interessi» raccontava senza mai stancarsi, felice quando poteva confrontarsi con i ragazzi, con gli studenti, e fino all’ultimo si era battuto perché i film di quella straordinaria stagione venissero proiettati nelle scuole: tra i compiti di un autore, spiegava, c’è anche quello di fornire ai giovani gli strumenti per capire il mondo.

Nella sua carriera prestigiosissima Franco Rosi ha firmato capolavori, da «Lucky Luciano» a «Tre fratelli», da «Cadaveri eccellenti» a «Il caso Mattei», da «Cristo si è fermato ad Eboli» a «Il momento della verità», ha vinto tutto il vincibile, Palme, Leoni, Orsi d’oro, David di Donatello e Nastri d’argento, ha avuto quattro lauree ad honorem e innumerevoli riconoscimenti. Trent’anni dopo «Le mani sulla città» era tornato a Napoli per girare, negli stessi luoghi, «Diario napoletano», un docufilm che volle far cominciare a Scampia. Anche in quel caso aveva anticipato i tempi e lo raccontava: «Ricordo che non vollero farmi entrare con la cinepresa, evidentemente non erano ancora abituati all’uso mediatico di certi ambienti borderline». Dopo «La tregua» si era dedicato al teatro, il primo amore, dirigendo tre classici eduardiani con Luca De Filippo protagonista: «Napoli milionaria!», «Le voci di dentro» e «Filumena Marturano», cercando anche in quei testi il conforto intellettuale della sua formazione: «Era un inarrivabile cronista della realtà. La battuta ”Ha da passà ’a nuttata” è una speranza che ci accompagna da sessant’anni, perché certe nottate sanno essere molto lunghe».

Gli ottant’anni li festeggiò in Campidoglio con Veltroni, tanti amici, invitati eccellenti e gonfalone, per i novanta si era regalato la biografia scritta a quattro mani con Tornatore, «Io lo chiamo cinematografo», dedicata a Giancarla, la moglie amatissima che lo conquistò sfrecciando per Roma a bordo di una Topolino gialla. Con la sua morte, una fine straziante, i giorni non erano stati più gli stessi per Franco. «Sono in piedi, vado avanti», diceva agli amici. E alla cinepresa di Roberto Andò confessava di non avere paura della morte: «Ma non piace, perché è una resa dei conti con qualcosa che non conosco».
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