Coronavirus, l'incognita asintomatici: la prevenzione è decisiva

Coronavirus, l'incognita asintomatici: la prevenzione è decisiva
di Lucilla Vazza
Lunedì 4 Maggio 2020, 00:00 - Ultimo agg. 15:05
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C’è un’incognita che incombe su questo avvio di fase 2: quanti sono gli asintomatici nel Paese? Nessuno lo sa con certezza. Quanto potenziale infettivo da domani si potrà liberare nelle strade delle nostre città per il rientro al lavoro, per fare spesa o per visitare (a distanza di sicurezza!) congiunti e affini? Qualcuno stima che le infezioni degli asintomatici possano rappresentare circa l’80% dei casi accertati di Covid-19, ma sono appunto stime basate su modelli matematici. 

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«Gli asintomatici sono sicuramente un esercito - spiega Matteo Bassetti, direttore della Clinica malattie infettive al Policlinico S. Martino di Genova - l’unico modo per capire quanti siano sul numero degli attuali casi è fare le analisi sierologiche, i test, a tappeto. Credo che i 150mila test a campione sulla popolazione italiana, avviati oggi dal Governo, siano un ottimo exit poll, per capire dal punto di vista statistico quanta gente è potenzialmente positiva nella popolazione e poi eventualmente rilevarli con il tampone. Lo screening a tappeto permetterebbe di capire chi ha gli anticorpi IgG/IgM e dunque è stato a contatto con il virus». Il secondo punto è anche capire se, quanto e per quanto tempo gli asintomatici siano realmente infettivi: «Noi non sappiamo qual è la carica virale che questi potenziali “untori” hanno sul tampone, quanto siano contagiosi - aggiunge Bassetti - è un dato non del tutto assodato, ma potenzialmente sono contagiosi ed è difficile rilevarli, perché non è detto che siano stati a contatto consapevole con qualcuno che si è poi ammalato. Chi è stato contagiato in modo casuale (per esempio non tramite familiari, colleghi o conoscenti) non è in grado di indicare dove è avvenuto il contatto. Oggi gli asintomatici rappresentano un importante serbatoio virale, ma il distanziamento sociale e l’uso della mascherina dovrebbero assicurare che non contagino nessuno». 

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In un panorama così incerto è chiaro che convivere con il coronavirus significa prendersi la responsabilità della propria salute e di quella degli altri. «In questa seconda fase dell’emergenza - precisa Italo Francesco Angelillo, ordinario di Igiene alla Seconda Università di Napoli e presidente della Società italiana di Igiene - sarà essenziale la risposta capillare dei servizi di prevenzione e i programmi di sorveglianza che andranno realizzati in sinergia con i dipartimenti di Prevenzione e i distretti, fulcro del controllo della salute della popolazione». Strutture con organici ridotti all’osso da anni di razionalizzazione delle risorse e tagli al personale, e che ora paradossalmente “grazie” alla pandemia tornano a essere centrali e a richiedere nuovi investimenti. «L’inchiesta epidemiologica, con screening e azioni di prevenzione, dev’essere standardizzata, perché non dobbiamo più farci sorprendere da eventuali altre ondate di contagio. In autunno ci sarà la corsa al vaccino antinfluenzale, nel frattempo dobbiamo essere in grado di attuare la sorveglianza epidemiologica, tracciare i contatti, monitorare i pazienti» conclude Angelillo. 
 


Nelle prossime settimane a supportare il monitoraggio della situazione arriverà la app di contact tracing, Immuni (se si chiamerà definitivamente così), che sarà il ponte digitale tra cittadini e servizio sanitario per mappare i contagi. Per l’implementazione e il funzionamento di Immuni, ideata e rilasciata a titolo gratuito dalla società Bending Spoons, sono stati stanziati 1,5 milioni di euro e mobilitata una commissione di 74 esperti, tuttavia a determinarne il funzionamento sarà un protocollo targato Google e Apple, rilasciato per ora in fase Beta (di prova) agli sviluppatori. 

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«Uno dei problemi è non sappiamo davvero se queste app servano - è l’opinione di Andrea Rossetti, docente di Informatica giuridica all’Università di Milano Bicocca - c’è un punto di vista ingegneristico, che evidentemente valorizza l’utilità dello strumento e anche la semplicità del funzionamento, diverso il pensiero di chi si occupa della tutela e della gestione dei dati. I rischi potrebbero essere superiori ai vantaggi. I dubbi non riguardano tanto il tracciamento, perché l’app non sa esattamente dove la persona si trova, ma la condivisione dei dati sanitari che rappresentano una fonte informativa ghiottissima. Il mondo hacker, ma anche le raccolte lecite di big data sono a caccia di queste informazioni perché consentono le profilazioni degli utenti. Sono una miniera preziosa. A nessuno interessa se il profilo appartiene a Mario Rossi, ma interessa chi è, dove vive, cosa mangia, quali malattie ha, che lavoro svolge. Informazioni innocue solo in apparenza. C’è poi un punto giuridico sostanziale: se apple o google sanno tutto di me possono cercare di vendermi qualcosa, ma non possono obbligarmi a farlo, se invece il proprietario è lo Stato, lo scenario cambia totalmente. I dati informatici non scompaiono per decreto, questo è bene che ne siamo tutti consapevoli». 
 

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