Renzi vince ma sbaglia l’analisi

di Pietro Perone
Lunedì 24 Novembre 2014, 23:09 - Ultimo agg. 23:35
3 Minuti di Lettura
Non hanno perso tutti alle regionali di Calabria e Emilia Romagna perché l’astensione è ormai da anni un tratto amaro, ma purtroppo dominante di tutte le democrazie.

Domenica ha vinto Renzi che è riuscito a difendere il primato della sinistra nella «roccaforte» rossa e ha conquistato la Calabria, governata nell’ultimo periodo dal centrodestra. Ma è superficiale liquidare, come fa il premier, la grande fuga dalle urne come un problema «secondario».



Il 63% di cittadini emiliani che sono rimasti a casa consegnano invece alla politica una domanda allarmante e stringente: quale è il livello di guardia, rispetto alla non partecipazione, perché una democrazia si possa definire malata? E ancora: possono le migliaia di «cinguettii» e le valanghe di commenti su Facebook considerarsi autentiche forme di partecipazione democratica quando poi le urne restano desolatamente vuote?



È indubbio che la diserzione soprattutto dell’Emilia, la comunità storicamente più politicizzata d’Italia, sia anche un segnale esplicito contro l’ente Regione, dopo che un presidente si è dimesso in seguito alla condanna di primo grado per favori concessi al fratello e 42 consiglieri sono stati indagati per le spese pazze dei gruppi consiliari. Ennesimo scandalo dopo Fiorito nel Lazio, i cumuli di vitalizi, le auto blu e una marea di danaro sprecato tra cene, viaggi e acquisti finanche nei sexy-shop.




È questa purtroppo l’immagine che offrono le Regioni italiane, mentre il federalismo fortemente voluto in passato ha consegnato una montagna di cause pendenti davanti alla Corte costituzionale per conflitti tra i poteri dello Stato.



Una riforma, il titolo V della Costituzione varata nel 2001, voluta dal centrosinistra con appena cinque voti di scarto, ha consegnato norme che parevano il toccasana e che ora tutti ripudiano, tanto da proporre al Parlamento la riforma della riforma.



Enti da ricostruire o cancellare per sempre, come giustamente sostiene il governatore Caldoro, strada obbligata per ridare credibilità alla politica locale. Quello che però è accaduto domenica in Emilia va oltre le gravi responsabilità delle Regioni.



La diserzione di massa è avvenuta nella patria dell’Ulivo, terra un tempo «cuore» rosso dell’Italia e anche culla dell’associazionismo cattolico. Sarebbe dunque un micidiale errore sottovalutare la fuga di elettori, soprattutto ora che il Pd aspira a rappresentate tutti, o quasi, i segmenti della società.



Sfida irrinunciabile è invece tentare di comprendere perché un popolo cresciuto tra le feste dell’Unità e i «campi-scuola» dell’Azione Cattolica abbia deciso di rimanere a casa, rinunciando a una partecipazione che dalle parti di Bologna o Reggio Emilia è sempre stata un tratto genetico.



La grande fuga è qualcosa in più di un campanello d’allarme, soprattutto in queste settimane, quando le piazze sono tornate a popolarsi, e non sempre in maniera pacifica.
L’aggettivo «secondario» per definire un’astensione da brivido appare dunque inappropriato in un Paese che ha già conosciuto forme estreme di contestazione, tristemente al di fuori del processo democratico.