Addio al «lazzaro felice» che rivoluzionò la canzone

Addio al «lazzaro felice» che rivoluzionò la canzone
Martedì 6 Gennaio 2015, 03:13
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Federico Vacalebre
Alzati che sta passando il fondatore della nuova canzone popolare napoletana.
Pino Daniele fu salutato al suo esordio come un guastatore, un terrorista melodico, un contestatore zazzeruto, un pericoloso eversivo di sinistra che voleva buttare in politica tutto, persino 'na tazzulella 'e caffè e Masaniello, che prima di allora nero ed incazzato non si era mai visto.
La via moderna alla canzone napoletana era stata aperta, trovata, cantata, il mascalzone latino, e nero a metà, e lazzaro felice, ed uomo in blues prossimo venturo, teneva insieme sin dall'esordio commovente di «Terra mia» (1977) Murolo e Presley, i mandolini e le chitarre elettriche, scandendo con inesorabile e lucida poesia da voce di dentro cosa Napoli era davvero e per cosa, invece, la si contrabbandava.
Giuseppe Daniele (Napoli, 19/3/1955 - 4/1/2015) se n'è andato in gennaio, come Gaber e De André, lasciando come loro un vuoto incolmabile, una presenza indicibile, un silenzio assordante. Il ragazzo venuto da una famiglia umile ma onesta, Troisi docet, cresciuto dalla zie visto che i genitori non potevano sfamare così tante bocche, vissuto da scugnizzo nel centro storico allora abbandonato a se stesso molto ma molto di più di oggi, era diventato, anche obtorto collo, la voce di una città senza voce, il megafono di una generazione che voleva portare l'immaginazione (e la rivoluzione) al potere ed è riuscita al massimo a portare la poesia in hit parade. Nella generazione dei cantautori engagé, tutti testo e messaggio e poca musica, lui fu il ribelle senza pausa che mise in campo il sound, il groove, il ritmo. Negli anni del dialetto negletto, lui lo riportò in auge, riconsegnando ai napoletani l'orgoglio della nuova lingua, ma anche un nuovo uso: al posto delle liriche perfette e romantiche di Di Giacomo quelle scabrose sull'impossibilità di fare la rivoluzione con il pantalone rotto, lo slang anglopartenopeo rubato, con il blues e il funky, nei locali del porto per gli americani della Nato. E con l'aggiunta dell'antica parlesia, della lingua ottocentesca dei musici di strada. Con lui resuscitò la bella 'mbriana, con le sue canzoni capimmo chi era 'o jammone base e cosa fosse una bagaria, perché le femmene belle erano quelle che avevano grandi «tennose».
Iniziò bambino con una chitarrella da poche lire, la suonava «areto 'a palma» di piazza Santa Maria La Nova, poi fondò un gruppo dal nome strambo ed il suono indefinibile, i Batracomiomachia. Della guerra tra le rane e i topi forse sapeva poco, tranne che all'epoca le band si davano nomi strani, ma della vita sapeva già molto, anche perché era stato illuminato dalla voce di Mario Musella, vero nero a metà, vero indiano cherokee a metà, vero napoletano verace al cento per cento. Come lui, come James Senese, che lo accettò al basso con i Napoli Centrale, ma poi lo lasciò andar via, cosciente di aver incontrato un fuoriclasse.
Arbore, Eduardo, il patron del Festivalbar Salvetti, furono tra i primi ad accorgersi di lui, bastò il primo 45 giri, «Ca calore», motivetto apparentemente innocuo, ma in realtà primo esercizio antioleografico. «'Na tazzulella 'e cafè» rincarò la dose, figlia della consapevolezza di «Le mani sulla città» più di qualsiasi deriva locale. Eppure quei pezzi finirono in «Terra mia», lp di debutto del 1977, data di nascita della nuova canzone napoletana, che poi fu perfezionata, anno dopo anno, da titoli come «Pino Daniele» (1979), «Nero a metà» (1980), «Vai mo'» (1981).
Capace di scrivere a 18 anni un capodopera come «Napule è», scoperto da Renato Marengo e Claudio Poggi, trovato in un producer emiliano come Willy David il complice ideale di quell'inizio di carriera, Pinotto divenne un bandleader di carisma e intuito eccezionale, riunendo intorno a sé James Senese, Tullio De Piscopo, Tony Esposito, Rino Zurzolo, Joe Amoruso, Ernesto Vitolo, Gigi De Rienzo, Rosario Jermano e un supergruppo cangiante, ma irresistibile, con cui trionfò il 19 settembre 1981, invitato dal primo sindaco comunista di Napoli, Maurizio Valenzi, a liberare per la prima volta dalle auto piazza del Plebiscito. La festa di San Gennaro, la piedigrotta della nuova Napoli diede vita alla leggenda pinodanieliana, ma mise anche fine all'intesa con la neapolitan all star band. Troppi galli in un pollaio, troppi cavalli di razza in una scuderia, troppi interessi in gioco. Esposito e De Piscopo sfornarono i loro hit, Daniele iniziò a flirtare con il music set internazionale, fondendo melodie veraci, blues, funky, soul, jazz, reggae, poi anche sound d'Afrique con musicisti del calibro di Wayne Shorter, Alphonso Johnson, Mel Collins, Jerry Marotta, Mino Cinelu, Pino Palladino. E l'elenco è infinito: da Randy California, Steve Hunter, Robby Krieger, Phil Manzanera, Leslie West (con lui nella «Night of the guitar») a Don Cherry, Chick Corea, Gato Barbieri, Bob Berg, Billy Cobham, Ralph Towner, Al Di Meola, Peter Erskine, Trilok Gurtu, Richie Havens, i Simple Minds, Nanà Vasconcelos, Noa, fino a Pat Metheny e Eric Clapton. Nel 1980 fu persino supporter di Bob Marley a San Siro.
La sua epoca d'oro fu scandita da dischi imperdibili, compresi i live, perfetto incastro di Napoli e resto del mondo, melodia e ritmo, parole e note, a un certo punto anche dialetto e italiano: «Bella 'mbriana» ('82), «Musicante» ('84), «Sciò live» ('84) «Ferryboat» ('85), «Schizzichea with love» ('88), «Mascalzone latino» ('89), «Un uomo in blues» (1991, con «'O scarrafone» e la prima denuncia del razzismo della Lega Nord), «Sotto 'o sole» ('91), «E sona mo'», registrato dal vivo a Cava de' Tirreni. Problemi di cuore lo portarono a rarefare le sue apparizioni pubbliche, ma per fortuna c'è l'amicizia e l'intesa con Massimo Troisi, con cui fa banda, gioca in televisione con Minà, scrive canzoni come «Quando», destinate a «Pensavo fosse amore... invece era un calesse», l'ultimo dei suoi film da lui musicati dopo «Ricomincio da tre» e «Le vie del Signore sono finite», e «'O ssaje comme fa 'o core». I versi parlavano d'amore, ma l'allusione ai loro due cuori matti era evidente, struggente, autoironica.
Poi vennero anni più pop, di straordinario successo nazionalpopolare: «Che dio ti benedica» ('93), con Ornella Muti nel videoclip del singolo omonimo, «Non calpestare i fiori nel deserto» ('95) vendette un milione e duecentomila copie, «Dimmi cosa succede sulla terra» ('97). A Napoli qualcuno si sentì tradito, non gli perdonò la leggerezza, soprattutto dei testi, di «Come un gelato all'equatore» ('99), ma non riuscì a non godersi il suono arab rock di «Medina» (2001) e soprattutto le storiche tournée del trio con Ramazzotti e Jovanotti ('98); del quartetto con De Gregori, Mannoia e Ron (2002); del ritrovato supergruppo di «Ricomincio da 30» (2008) che culminò l'8 luglio in una diretta su Raiuno dalla «sua» piazza del Plebiscito che coinvolse anche Giorgia, Chiara Civello, Irene Grandi, Avion Travel, Nino D'Angelo, Gigi D'Alessio; del mucchio selvaggio napoletano che lo vide festeggiare il nuovo anno nel 2012 e nel 2013 con un concerto grosso newpolitano al Palapartenope, rito appena rinverdito in qualche modo il 16 e 17 dicembre scorso con due date speciali del tour di «Nero a metà».
L'azzardo neomadrigalista di «Passi d'autore» (2004), «Iguana cafè» (2005, con una cover di «It's now or never»), «Il mio nome è Pino Daniele e vivo qui» (2007), «Electric jam» (2009), le riletture di «Boogie boogie man» sono i passi più recenti, sino a «La grande madre» del 2012, suo ultimo album in studio, con il singolo «Melodramma» dedicato a Luciano Pavarotti che lo volle sul palco di Modena per dividere con lui «Napule è»: una carriera in una canzone, una delle prime, una città in una canzone.
Ciao Pino, grazie di tutto.
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