Antonio Manzo
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Battipaglia. È solo quando arriva la luce del giorno

Antonio ManzoInviatoBattipaglia. È solo quando arriva la luce del giorno
Domenica 9 Agosto 2015, 03:25
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Antonio Manzo
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Battipaglia. È solo quando arriva la luce del giorno che si scopre l'ombra del dramma riflesso nella terra bruciata dal sole. Alle cinque del mattino, le sagome assonnate di uomini e donne incarrozzati su pulmini o a bordo di biciclette, si riescono solo a intravedere. Solo quando il sole inizia ad albeggiare si definiscono meglio le forme. Eccoli i braccianti. Uomini e donne sfruttati, che staranno curvi per dieci ore sotto serre di pomodoro, rucole, prezzemolo e basilico, dove con questo caldo africano non puoi resistere neppure se ti garantissero l'aria condizionata a manetta, perché qui il tetto di plastica è il fotovoltaico degli sfruttati. Non sono più solo marocchini o rumeni, ma da qualche mese anche moltissimi italiani disoccupati, scaricati da fabbriche chiuse, imprese edili fallite, ma anche ex piccoli imprenditori finiti sul lastrico. Esodati, cassintegrati, disoccupati di casa nostra allungano una fila che negli ultimi tempi si sta sempre più infoltendo.
Siamo nella piana del Sele, profondo Sud, a duecento chilometri dai campi della provincia di Andria dove la scorsa settimana una donna era morta di fatica, la stessa che decine e decine di persone soffrono in questo angolo di Campania.
«Invocano un lavoro qualsiasi, sono tutti disoccupati, uomini o donne tra i quaranta e cinquant'anni, spesso anche qualcosa in più», raccontano Giovanna Basile e Alferio Bottiglieri, sindacalisti Cgil. I braccianti, nella piana ai piedi di Eboli come in Puglia e in Calabria, vengono pagati per 25, massimo 30 euro a giornata. Stranieri o italiani non conta. La beffa nella beffa è che chi li sfrutta, insieme ai soldi consegna loro una busta paga dove il computo finale, in apparenza, non fa una grinza, con il lordo a pagare tutto secondo contratto, limpido ma con la truffa mascherata. Perché i soldi in tasca, alla fine, della giornata in realtà sono la metà. Chi si ribella va fuori, perde anche quel poco che basta per vivere.
A Battipaglia, Capaccio-Paestum, Bellizzi, Pontecagnano, Eboli è come a Rosarno ma anche qualcosa in più perché quasta Piana l'hanno definita da sempre la California d'Italia. Ma non è più come apparve agli occhi innocenti di Rocco Scotellaro che descrisse proprio qui i contadini del Sud capaci perfino di parlare con le bufale, chiamandole per nome, o a Piero Ottone quando negli anni del «miracolo italiano» incrociò la ricchezza della Piana e i grandi agrari, come Mellone o Valsecchi, capaci di esser virtuosamente passati da latifondisti a grandi imprenditori agricoli di respiro nazionale. Erano loro gli Agnelli del Sud.
Oggi dire Piana del Sele è come dire Andria dove la prima vittima della terra non ha cognome e nome straniero ma italiano, ed era quello di Paola, 49 anni bracciante di San Giorgio Jonico. Paola non era Mohamed, il sudanese ucciso dalla fatica in un'azienda tra Nardò e Avetrana, né Zakaria, crollato dopo nove ore di lavoro a Polignano a Mare e dove la moglie e i quattro figli che ha lasciato non torneranno più. Paola è un'italiana. E proprio da icona, martire del lavoro nero nei campi al tempo della globalizzazione, che ti appare come una sagoma inquietante, alle cinque del mattino, tra moltissimi italiani che, insieme a marocchini, rumeni, indiani, raggiungono i campi coltivati della piana del Sele. Proprio come è capitato nel Nordest dove la vendemmia non è più appannaggio solo degli immigrati ma di disoccupati italiani.
Ci eravamo tutti abituati a descrivere solo le facce straniere di questi reduci dei barconi finiti a raccogliere pomodori nelle terre dei presunti ricchi che si erano perfino arrogati il diritto di odiare la terra, lasciarla, abbandonarla al destino dei nuovi schiavi, oppure sfruttarla in ogni metro quadrato con la cementificazione selvaggia contigua alla camorra.
Le auto dell'esodo estivo dell'Italia sulla Statale 18 si confondono con i pulmini dei nuovi «caporali» con i braccianti a bordo. Le auto schivano i marocchini in bicicletta, a bordo carreggiata, visibili solo per quei giubbini catarifrangenti nell'oscurità della notte ormai prossima all'alba. Ogni mattina, nella piana del Sele, in appena trenta minuti, circa 5mila lavoratori vengono smistati in 400 aziende agricole. «Vedi ancora molti rumeni ma ci sono anche tanti italiani» testimonia Davide Palo, gestore di un impianto di carburanti. Lui è un pezzo di storia da queste parti: ricorda i tempi dell'irruzione violenta sul mercato del pomodoro di Pasquale Simonetti, meglio noto come «Pascalone 'e Nola», fino ad oggi, epoca della grande ortofrutta. I braccianti sfruttati lasciano povere case con tetti di amianto e immondizia. A via Vincenzo Gioberti, sulla litoranea di Eboli, in improbabili villette per le vacanze vivono centinaia di immigrati nel degrado più assoluto.
Racconta Anselmo Botte, sindacalista-sociologo ed autore di libri sulla miseria degli immigrati della piana del Sele. «È cambiato tutto quaggiù. Perché quel 100 per cento di braccianti di origine straniera, ora è diminuito all'80% e scende sempre di più. La manodopera è cambiata e nei campi non si parla più solo marocchino o rumeno». Antonio Calabrese 52 anni, quattro figli, è di Bracigliano, un paesino della Valle dell'Irno. «Sono un carpentiere disoccupato - racconta - lavoravo in edilizia e la mia ex impresa è fallita. Voglio andare a lavorare nella piana del Sele. La colpa non è dei marocchini, è che noi italiani abbiamo pensato per decenni che la fatica nella terra era un declassamento nella società». Alfredo Provenza, 53 anni, di Battipaglia: «Ho chiesto di esser inserito nel collocamento pubblico promosso dal sindacato, la mia azienda produceva plastica. È fallita. a casa mia era l'unico stipendio. Sono pronto a tornare alla terra». Raffaele Del Torto, 50 anni, cilentano: «No dovrò avere vergogna se alle cinque del mattino troverò lavoro nella Piana. Devo sbarcare il lunario, ero un operaio edile».
Tutto è cambiato, anche la faccia e la carta d'identità dei «caporali» è cambiata. I «caporali» italiani, ineguagliabili, fino a venti anni, fa nello sfruttamento dei braccianti dei paesini dell'Irpinia o del Basso Cilento, non hanno più le stesse facce. Ora i «caporali» sono tutti stranieri, trasformazione etnica profonda, radicale. «Sono i caporali etnici che trattano direttamente con gli imprenditori agricoli della Piana. Una intermediazione di manodopera con la gestione del sottosalario, il controllo dei ritmi di lavoro, punti di snodo di una tratta di esseri umani perfino prestata alla politica, come quando gruppi di rumeni furono spediti anche a votare alle primarie pd» spiega ancora Anselmo Botte.
Se vuoi, da marocchino, un posto di lavoro puoi anche essere costretto a sganciare una tangente che si aggira tra i 7 e i 10mila euro. Spesso sono anche truffe. Basta aprire un'agenzia di consulenza per gli immigrati, con avvocati, qualcuno già finito in galera, e sedicenti commercialisti per aprire il mercato dei contratti di lavoro. I sindacalisti e qualche esponente della Caritas quaggiù appaiono come gli ultimi, solitari combattenti nella guerra per la legalità. A giugno scorso la Cgil ha organizzato un convegno sullo sfruttamento nelle campagne. C'era anche il questore di Salerno, Alfredo Anzalone. Ha ascoltato tutti, pazientemente, e per ore. Lui che arriva dalla frontiera di Rosarno avrà, ad esempio, percepito in tutta la sua gravità la denuncia sindacale sulla tratta dei rumeni, centinaia di uomini ai quali sarebbero stati sottratti documenti e premessi di soggiorno e resi così «invisibili»: una vita quotidiana tra tuguri e lavoro. È così, ancora più facile, per i mafiosi rumeni che si aggirano al bivio di Santa Cecilia di Eboli poter incassare migliaia di euro ogni quindici giorni per conto degli «invisibili», con la complicità di imprenditori italiani, naturalmente. E pensare che qui l'agricoltura incrocia il mondo. Tino Bellina, imprenditore bergamasco, intuì alla fine degli anni Ottanta il futuro dell'insalata in busta, pronta per essere messa nel piatto. Prima Ortobell poi nel 2000 l'arrivo del colosso francese Bonduelle. Oppure i laboratori della Finagricola che trasferiscono la più avanzata ricerca ai prodotti nei campi. È la cosiddetta «quarta gamma» dell'ortofrutta di Battipaglia, la faccia pulita della ricchezza globale. «Le insalatine che finiscono nei piatti di mezzo mondo hanno salvato l'agricoltura della Piana» spiega Oreste Mottola, il cronista dei contadini. Perché qui negli anni '80 il pomodoro fu colpito da una virosi che distrusse coltivazioni per migliaia di ettari. Ora è tornato, l'oro rosso. Grazie ai braccianti stranieri sfruttati e sottopagati. Come quelli che sostano ogni sera davanti ad una banca della Piana inconsapevoli che, alle loro spalle scorre, inesauribile, il display delle Borse proprio mentre loro attendono di sfidare la morte sotto il sole. E per appena tre euro all'ora.
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