«Carlo aveva due anni e mezzo quando ce lo hanno portato via. Oggi ne ha 10. Io voglio giustizia». La prima sentenza sul “caso Bibbiano” arriverà oggi: il giudice per le indagini preliminari di Reggio Emilia, Dario De Luca, dovrà decidere sulle richieste di condanna con rito abbreviato per lo psicoterapeuta Claudio Foti e l’assistente sociale Beatrice Benati e pronunciarsi sulle richieste di rinvio a giudizio per gli altri 22 imputati, che, a vario titolo, avrebbero simulato abusi sui bambini, togliendoli alle famiglie e gestendo un mercato degli affidi. I dieci piccoli, finiti al centro dello scandalo scoppiato nel giugno del 2019 con l’inchiesta “Angeli e demoni”, sono tornati a casa. Monica (nome di fantasia), invece, sta ancora aspettando.
Perché il suo bambino non è ancora tornato a casa?
«Le verifiche stanno andando indietro nel tempo.
È trascorso tanto tempo?
«Pensi che abbiamo scoperto da una relazione che avevano dichiarato il bambino adottabile. E adesso il giudice avrà tempo per decidere entro il 2022. Come se il tempo fosse soltanto quello che riguarda udienze e processi e la burocrazia non avesse nulla a che vedere con la vita reale delle persone. Mi hanno impedito di vedere crescere mio figlio, di essere mamma, e a lui di avere una mamma e un papà. Io non ho potuto prendere parte a tutte le esperienze importanti nella vita del mio bambino. Ma l’inchiesta su Bibbiano ha scoperchiato un sistema, lo strapotere e gli abusi compiuti da alcuni assistenti sociali. Sono anni che faccio denunce. Ma non è solo Bibbiano. Non ho paura e non intendo fermarmi. Quello che abbiamo subito è mostruoso. Un giudice ha stabilito che, avendo subito abusi dal mio patrigno, avrei potuto trasmettere a mio figlio il trauma. Per questo lo hanno portato via. Spero che il processo si concluda con delle condanne. Voglio giustizia. Il rapporto con nostro figlio è ancora meraviglioso. Ci abbraccia e ci bacia, ha sempre insistito, in ogni occasione di incontro, perché ci fermassimo più a lungo, ancora un minuto in più. A settembre, quando ha saputo che ci saremmo rivisti il mese successivo era felicissimo».
Come gli avete spiegato il fatto che potevate vederlo solo sporadicamente e che andavate via?
«Ormai non diciamo più nulla. All’inizio sono stati gli assistenti sociali, ai quali avevamo chiesto cosa dire se lui avesse insistito per venire via con noi, a darci indicazioni: dobbiamo andare a scuola per diventare dei bravi genitori. Questa era la frase che dovevamo dire e abbiamo detto. Oramai non chiede più. Non l’abbiamo ancora visto da quando il giudice ha firmato il nuovo decreto».
Lei e suo marito avete una situazione stabile?
«Sì, stiamo insieme da dodici anni. Abbiamo una casa e un lavoro. Lui è un corriere e io, per conto di un’azienda, preparo le confezioni di alcuni prodotti. Amiamo nostro figlio più di ogni altra cosa e solo l’idea di riportarlo a casa ci fa andare avanti. Il nostro incubo non è ancora finito e neppure le condanne potranno sollevarci da questo dolore, ma almeno ci daranno una speranza nella giustizia».