Una mossa che vuol essere astuta, sia politicamente che militarmente. Il ritiro della 98a Divisione dalla zona di Khan Yunis nella parte meridionale di Gaza, stando a fonti dell’esercito israeliano segna la fine della seconda fase della guerra e l’inizio della terza, quella dei raid mirati, e perciò non esclude ma potrebbe preparare l’attacco annunciato da Netanyahu a Rafah, l’estremità sud della Striscia in cui si sono rifugiati un milione di sfollati. Restano a nord e al centro la Brigata Nahal e parte della 401, per tenere sotto controllo il corridoio Netzarim che attraversa Gaza dall’area di Beeri, sud di Israele, alla costa dell’enclave palestinese. E permettere alle forze israeliane di tornare a colpire, impedire il rientro degli sfollati nella zona settentrionale (dove sono rimasti in 300mila) e consentire il passaggio a nord delle organizzazioni umanitarie. Dopo l’uccisione di sette volontari coi droni la scorsa settimana, l’esercito ha anche riaperto il valico di Erez e il porto di Ashdod. Il rimescolamento delle carte sul terreno è attribuito dal portavoce sulla Sicurezza nazionale Usa, John Kirby, «probabilmente a un periodo di riposo per le truppe che si trovano lì da 4 mesi e sono stanche», aggiungendo che è difficile dire che cosa questo parziale ritiro israeliano «significhi esattamente».
LA STRATEGIA
Ma la mossa è anche utile a Netanyahu per allentare la pressione americana e internazionale sul suo governo, sotto accusa per il numero di vittime civili e i troppi “errori” che hanno portato all’uccisione di operatori umanitari.
I PIANI
Si discute adesso se basti avere eliminato l’80 per cento del personale di Hamas «o se si debba distruggerlo tutto, per installare nella Striscia un governo retto dall’Autorità palestinese, da Fatah, per quanto debole moralmente e politicamente, e dai vecchi clan che riprenderebbero forza, mentre Hamas è screditato perché ha lanciato un attacco il 7 ottobre senza aver prima provveduto a mettere in protezione la propria gente dalla inevitabile risposta di Israele». A volere il riassetto politico della Striscia c’è pure l’Egitto, «che non ha alcun interesse all’anarchia a Gaza». In Israele, invece, il tempo che resta a Netanyahu per governare è contato. «Appena la guerra sarà finita, verrà istituita una commissione che non dovrà cercare le responsabilità nell’Intelligence, perché i capi di quella militare e dello Shin Bet, quella interna, le hanno già ammesse e si presenteranno coi dossier pronti, mentre non sono coinvolti l’esercito, che dipende dalla security, né il Mossad che opera all’estero». La commissione affronterà le responsabilità di Netanyahu come premier e lo costringerà a dimettersi, al massimo in 90 giorni. «La sua uscita di scena è inevitabile», conclude il politologo americano-romeno, ma non risolverà il problema. «Prima di tornare alle urne, gli israeliani dovranno cambiare questa legge elettorale proporzionale che consente ai micro-partiti e agli estremisti di ipotecare il governo, se c’è un premier come Netanyahu che pur di restare al potere è pronto ad allearsi con chiunque».