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Mosca Wagner, sul piatto della trattativa anche la testa di Shoigu: «Putin verso il tramonto»

Il leader della Wagner andrà in Bielorussia, avrebbe ottenuto il siluramento di due suoi nemici: il ministro della Difesa e il Capo di Stato Maggiore Gerasimov. Ma il Cremlino smentisce

di Marco Ventura
Articolo riservato agli abbonati
Domenica 25 Giugno 2023, 01:15 - Ultimo agg. : 10:01
5 Minuti di Lettura

Una formidabile prova di forza di Prigozhin, che peserà sul futuro di Putin e fa traballare i suoi generali, Shoigu e Gerasimov (che voci insistenti danno in uscita, ma il Cremlino smentisce). Il capo dei mercenari Wagner lancia le truppe in una marcia su Mosca che sembra inarrestabile. Alla fine si ferma a 200 chilometri dalla capitale. Le forze armate guidate dai grandi nemici del leader della Wagner, il ministro della Difesa Shoigu e il capo degli stati maggiori Gerasimov, per tutto il giorno paiono impotenti. Le colonne dei “musicisti”, che hanno combattuto e sono stati decimati sul fronte di Bakhmut e ora si rivoltano contro i capi militari che li avrebbero disarmati e abbandonati, avanzano senza essere fermati, senza uccidere o essere uccisi.

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Colpo di stato in Russia, il fallimento di Putin e l'ipotesi di un accordo con la Wagner 
Dalle miniere d’oro in Africa alla fabbrica delle fake news. I business milionari del capo della Wagner
Prigozhin, che fine ha fatto? Silenzio del capo della Wagner dopo il dietrofront. Il mistero dell'esilio in Bielorussia

A Rostov sul Don i cittadini simpatizzano con i ribelli, portano cibo. Le truppe regolari non reagiscono, anzi in qualche caso consegnano le armi. Come le colonne di ceceni del leader Kadyrov, che arrivano alle porte di Rostov ma poi si fermano. In un video, Prigozhin conversa su un muretto con un viceministro della Difesa della Federazione russa e un alto comandante. Ciondolano e parlano. «Mi dispiace – dice il generale – che grazie a te ora gli ucraini faranno vacanza e brinderanno a champagne per tre giorni».

Gli risponde il boss di Wagner: «Facciano pure e lancino anche l’uvetta, noi non scappiamo, noi siamo qui per prendere Shoigu». «Ah, prendilo!», ribatte l’altro. Tutto si svolge con tranquillità, tra compagni russi. Per tutto il giorno, come si scoprirà, Prigozhin sarebbe rimasto in contatto con il leader bielorusso e alleato di Putin, Lukashenko, nelle vesti di mediatore. Ma è evidente che l’interlocutore vero era Putin, avvolto dal mistero sui suoi spostamenti. E alla fine della marcia verso la “giustizia”, com’è stata ribattezzata, c’era un’esibizione di muscoli, non tanto verso Putin quanto verso i suoi plenipotenziari militari.

«Il piano di Prigozhin era deciso da mesi», spiega il generale Leonardo Tricarico, ex capo di stato maggiore dell’Aeronautica e presidente della fondazione Icsa in un’intervista. «Ci sono state crepe nel morale dei militari, sicuramente nei bassi gradi dell’esercito russo. Bisogna capire se c’è una solidità o meno della catena gerarchica, in grado di consentire a Gerasimov di poter contare sull’obbedienza e la tenuta dei suoi sottoposti, oppure no». Tutta la narrativa di quel grande (seppur rozzo) comunicatore che è Prigozhin, è centrata sull’invettiva contro le élite militari e politiche russe, sulla loro corruzione e i loro giochi burocratici e di potere sulla pelle dei soldati, in particolare dei miliziani di Wagner, che hanno versato il sangue in prima linea. Poveri, ma eroici, disgraziati.

In ogni caso, gli analisti concordano che la marcia interrotta dei wagneriani è un colpo mortale per lo Zar, il quale perde l’aura di invincibilità e controllo. James Kilner, sul britannico Daily Telegraph, ricorda che i leader russi e sovietici quasi mai sono potuti sopravvivere a lungo a un golpe. Come Gorbaciov, rimasto in sella nella sua villa in Crimea nell’agosto del 1991 contro i duri e puri del Cremlino, ma dopo 5 mesi ha dovuto rinunciare alla leadership. «I giorni di Putin al Cremlino sono contati - scrive Kilner - La sua guida è compromessa per sempre».

E sul Sunday Times l’autore di oltre 20 libri sulla Russia, Mark Galeotti, osserva che «la fine dei giochi comincia qui», i tre pilastri del regime di Putin erano «l’autorevolezza personale, il suo controllo degli apparati di sicurezza e la sua capacità di buttare soldi nella soluzione di problemi impossibili». I soldi cominciano a scarseggiare, l’autorevolezza anche, mentre l’unità e la lealtà degli apparati di sicurezza sono “un punto interrogativo”. 


GLI ERRORI DELLO ZAR
L’errore di Putin sarebbe stato quello di sottovalutare le chance dell’insurrezione armata, che infatti avrebbe colto di sprovvista i funzionari del Cremlino stando a fonti anonime citate dal sito indipendente russo Meduza. «Se n’è parlato nelle riunioni, arrivando alla conclusione che Prigozhin fosse solo uno spaccone opportunista refrattario alle regole. Pensavamo che il rischio di ribellione fosse pari a zero, soltanto un pazzo l’avrebbe fatta». L’altra notte al Cremlino si credeva ancora che Prigozhin bleffasse. Ma quando sono arrivate le notizie dalla periferia dell’Impero che i suoi mercenari, tra i combattenti russi meglio addestrati, erano entrati a Rostov sul Don, si è capito che la situazione poteva precipitare. Ancora ieri mattina Andrey Yarin, capo dell’ufficio per la politica interna del Cremlino, e Alexander Kharichev, del gabinetto di Putin, hanno chiamato governatori e politici invitandoli a non attaccare Prigozhin «sul piano personale». Ma un’ora e mezza dopo, il capo dei mercenari era diventato un “traditore” prima che Putin lo dichiarasse, significativamente però senza nominarlo.

E ieri sera su Twitter circolava la voce dell’arresto del ministro della Difesa. Nella trattativa mediata da Lukashenko, oltre al salvacondotto per i mercenari e l’integrazione nei ranghi per quelli che non hanno partecipato alla marcia, c’è l’impunità per Prigozhin e il suo “soggiorno” in Bielorussia. Incerto a questo punto il destino di Shoigu e Gerasimov.
 

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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