Reporter condannati e libertà negate in Myanmar

Reporter condannati e libertà negate in Myanmar
di Erminia Voccia
Lunedì 3 Settembre 2018, 17:38
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«Potete metterci in prigione, ma non potete chiudere gli occhi e le orecchie della gente», ha detto il giornalista di Reuters Kyaw Soe Oo prima di essere portato in cella. Insieme al collega Wa Lone è stato condannato a 7 anni di prigione dal tribunale di Yangon per aver violato una legge dell'era coloniale che tutela il segreto di Stato. I due giornalisti di Reuters stavano investigando sulle atrocità commesse contro la minoranza musulmana dei Rohingya nello stato di Rakhine, in Myanmar. La sentenza, arrivata il 3 settembre, è un pessimo segnale sullo stato della libertà di espressione e di stampa nel Paese asiatico dove l'esercito controlla ancora gli organi di informazione nonostante il lento processo di democratizzazione avviato nel 2011. Wa Lone, 32 anni, e Kyaw Soe Oo, 28, erano stati arrestati nel mese di dicembre del 2017 subito dopo aver cenato in un ristorante di Yangon con un ufficiale di polizia che avrebbe consegnato loro del materiale riservato sul massacro dei Rohingya. I due reporter furono fermati e perquisiti da un altro poliziotto in una strada adiacente il ristorante con la motivazione di aver mostrato “un comportamento sospetto”.

I giornalisti stavano lavorando a un'inchiesta sulla morte di 10 Rohingya che sarebbe avvenuta nel villaggio di Inn Din a settembre dell'anno scorso. I due hanno sostenuto di essere caduti in un tranello della polizia che prima avrebbe dato loro del “materiale segreto” e subito dopo avrebbe gli messo le manette ai polsi. Questa ipotesi è stata sostenuta anche da un testimone, il capitano della polizia Moe Yan Naing, che ha dichiarato durante il processo di aver ricevuto da un suo superiore istruzioni per incastrare i reporter. Per la sua testimonianza Moe Yan Naing è stato condannato a un anno di carcere con l'accusa di aver violato le norme disciplinari della polizia, mentre la sua famiglia ha perso l'alloggio in cui viveva.

Dan Chugg, ambasciatore britannico in Myanmar ha espresso il rammarico del governo di Londra chiedendo l'immediato rilascio dei due giornalisti. Anche l'Alto rappresentante per la Politica estera dell'Ue Federica Mogherini ha richiesto la liberazione immediata e senza condizioni, aggiungendo che la sentenza «mina il diritto all'informazione e il ruolo della legge in Myanmar». «Una decisione motivata da ragioni politiche», è stata invece la replica di Human Rights Watch e Amnesty International.



L'agenzia di stampa britannica Reuters ha definito infondate le accuse mosse contro i due professionisti, ma per il Myanmar il caso di Wa Lone e del collega Kyaw Soe Oo è solo l'ultimo di una lunga serie di attacchi alla stampa. La doppia condanna a 7 anni di carcere ha catturato l'attenzione dei media di tutto il mondo e quella della comunità internazionale sia perché coinvolge un'agenzia occidentale sia perché è strettamente collegata alla crisi dei Rohingya. Soltanto la scorsa settimana l'esercito del Myanmar è stato accusato di genocidio per le atrocità perpetuate contro la minoranza musulmana: stupri, omicidi e incendi di interi villaggi, una vasta operazione di pulizia etnica che costretto 700 mila persone a lasciare il Paese alla volta del Bangladesh.

La sentenza è senza dubbio un messaggio diretto ai giornalisti e alla stampa indipendente che prova da tempo a resistere alla repressione dei militari. Da adesso in poi il pericolo maggiore è che aumenti l'autocensura dei reporter che lavorano nel Paese e che subiscono molto spesso minacce da fonti anonime. Da quando l'esercito ha rafforzato il controllo sui media molti giornalisti hanno lasciato il lavoro per dedicarsi ad altre attività. Anche se è poco probabile che i due reporter scontino l'intera pena, si teme che saranno ancora meno i professionisti che proveranno a raccontare il dramma dei Rohingya e ad amplificare il loro di grido di aiuto.

Con il rapporto reso noto la settimana scorsa gli esperti della missione del Consiglio per i diritti umani dell'Onu hanno richiesto che i generali dell'esercito del Myanmar siano processati davanti alla Corte penale internazionale per gli atti compiuti contro i Rohingya. A questa condanna va aggiunto l'allarme lanciato da Fortify Rights, un'organizzazione no profit di base in Asia sudorientale citata dal quotidiano birmano The Irrawaddy, secondo cui la situazione resta molto critica anche nel nord del Paese. Nel documento “They Block Everything” Fortify Rights ha invece chiesto che il Consiglio di Sicurezza dell'Onu porti il Myanmar davanti alla Corte penale Internazionale anche per gli abusi compiuti negli Stati di Kachin e di Shan State. In quei territori i militari avrebbero bloccato gli aiuti umanitari inviati a decine di migliaia di civili a causa degli scontri che avvengono da almeno 7 anni tra l'esercito del Myanmar e l'esercito indipendente del Kachin (KIA), accusa che potrebbe costituire un crimine di guerra. Come i Rohingya, anche la minoranza etnica Kachin, a maggioranza cristiana, è vittima delle torture e degli abusi da parte degli uomini dell'esercito del Myanmar.










 
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