La cucina italiana patrimonio Unesco, intervista al ministro Lollobrigida: «Da Pompei la sfida della valorizzazione»

«Qui non si tratta solo di piatti, dietro ogni ricetta c'è la storia del nostro Paese»

Il ministro dell'Agricoltura Francesco Lollobrigida
Il ministro dell'Agricoltura Francesco Lollobrigida
di Marilicia Salvia
Sabato 5 Agosto 2023, 12:00 - Ultimo agg. 6 Agosto, 10:10
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C'è la cucina giapponese, la coreana, quella francese e la messicana. È paradossale che manchi la cucina italiana, nel ristretto novero di quelle tutelate dall'Unesco come beni immateriali dell'umanità. Che poi, immateriali si fa per dire: spaghetti, pizza, pesce e carne preparati in millemila modi, dolci fantasiosi e inimitabili, il babà e la Nutella, la sbrisolona e la cassata. Un universo di colori e sapori che attrae e conquista ogni giorno migliaia di turisti, almeno quanto riescono a farlo gli Scavi di Pompei o gli Uffizi o le calli di Venezia. «E invece è proprio di un concetto, di un'idea immateriale che parliamo, perché qui non si tratta solo di piatti. Dietro ogni cibo, ogni ricetta c'è la storia del nostro Paese, ci sono contaminazioni, ricerca, evidenze di biodiversità. Uno stesso piatto preparato in decine di modi diversi, anche nella stessa città, nelle contrade, nelle frazioni. C'è una filiera di capacità e professionalità uniche e differenti. E tutto questo va valorizzato, illustrato, promosso, perché vale, perché fa la differenza. Parlando della nostra cucina parliamo dell'Italia»: il ministro dell'Agricoltura e Sovranità alimentare, Francesco Lollobrigida, spiega così il senso della nuova iniziativa del governo, presentata ieri nel Parco Archeologico di Pompei nel corso di una manifestazione alla quale hanno partecipato, con lui, anche i ministri dell'Interno Matteo Piantedosi e dei Beni culturali Gennaro Sangiuliano.

Tre ministri, il viceministro agli Esteri Cirielli, il sottosegretario con delega ai beni Unesco Mazzi, oltre al direttore degli Scavi Zuchtriegel e all'ad del Poligrafico Soro: la cucina italiana merita tanto?
«È una iniziativa, la richiesta di tutela all'Unesco, in cui crediamo molto, e per la cui riuscita stiamo conducendo un lavoro di squadra, come è caratteristica del nostro governo. Lo chiarisce il logo studiato per l'evento, una padella dalla quale saltano fuori, insieme alla pasta, la pizza, l'olio, i formaggi e così via, anche i profili di tanti nostri beni culturali, dalla Torre di Pisa al Colosseo».

Si direbbe una campagna di promozione turistica: non se ne fanno già abbastanza?
«Il turismo enogastronomico è una risorsa importante per l'Italia, ma non è solo di questo che stiamo parlando.

Abbiamo davanti a noi un percorso lungo due anni, fino al 2025 quando l'Unesco si pronuncerà sulla nostra richiesta, durante il quale racconteremo al mondo la storia del nostro Paese da un altro punto di vista. Lo stiamo già facendo, portando la cucina italiana in tutti i porti in cui si ferma l'Amerigo Vespucci; lo abbiamo già fatto durante un evento all'Arsenale di Venezia, dove si è parlato delle contaminazioni fra la tradizione gastronomica della Repubblica marinara e quelle dei territori a quel tempo esplorati, dai Balcani fino alla Cina. E poi tappe a Madrid e New York».

A Pompei invece l'attenzione si è concentrata sulla pizza, che probabilmente è il piatto italiano più conosciuto al mondo. E il peggio imitato. Tutelare la nostra cucina significa anche mettere al bando orrori come la pizza all'ananas?
«La scoperta dell'affresco, in una domus di Pompei, che testimonia come un piatto simile alla nostra pizza era presente sulle tavole di duemila anni fa ci ha molto colpito, proprio nella direzione di cui stiamo parlando. Dietro ogni piatto c'è una storia da scoprire, studiare, raccontare. Noi vogliamo che i nostri ristoratori all'opera in tutto il mondo, che sono tantissimi e fortemente apprezzati, siano ambasciatori della cucina italiana e, attraverso di essa, del nostro valore aggiunto: la qualità di ogni nostro prodotto».

Qualità che è spesso garantita dal gran numero di etichette Doc, Dop e Igp. Cosa aggiungerebbe a questo l'ulteriore tutela Unesco? E perché non accontentarsi della già esistente tutela alla dieta mediterranea?
«La dieta mediterranea è patrimonio di tutti i Paesi che si affacciano sul nostro mare. Quello che conta per noi è la tutela delle produzioni legate al territorio, compito svolto egregiamente dalla politica dei marchi: non a caso siamo il Paese che ne ha di più al mondo, segno di una biodiversità straordinaria. Ma non basta. Noi dobbiamo rimettere al centro il mondo della produzione, per far crescere Pil ed export ma anche per creare opportunità di lavoro nuove. La cucina, come dicevo, è tradizione, ma anche scienza, innovazione, capacità di trasformazione. Su questo l'esperienza italiana non ha pari: bastano gli esempi della pasta di Gragnano, o della Nutella, la non-cioccolata più venduta al mondo».

Agricoltura, industria alimentare, ristorazione sono tre facce di un mondo in grande fermento. Una gallina dalle uova d'oro minacciata costantemente da abusivismo e lavoro nero.
«L'agricoltura in Italia è ormai alla fase 5.0, l'apporto dell'innovazione tecnologica è straordinario. Così come è innegabile che i diplomati degli istituti agrari e alberghieri trovino facilmente occupazione. Il livello di preparazione poi fa la differenza rispetto alle mansioni e alla carriera, oggi la formazione è tutto. Ma sulla spinta del ritrovato movimento turistico e del boom della ristorazione, chi vuole oggi trova lavoro rapidamente».

È la risposta a chi si lamenta dello stop al reddito di cittadinanza?
«Sentir dire che in assenza del Reddito l'alternativa è andare a rubare è paradossale e profondamente irritante. La verità è che si è alimentato il lavoro nero, per arrotondare l'assegno percepito a spese dei contribuenti. In questi settori il lavoro c'è: quanti ristoranti, quanti alberghi in costanza di Rdc hanno denunciato la difficoltà a reperire personale?».

Forse l'ostacolo sono le paghe basse, lo sfruttamento. Nei campi vengono impiegati extracomunitari a due euro al giorno.
«È vero. Con i ministri Piantedosi e Calderone due giorni fa abbiamo varato un pacchetto di sanzioni economiche per gli imprenditori che sfruttano i lavoratori. Dobbiamo sostenere chi produce, ma allo stesso tempo tutelare chi lavora. È un duplice obiettivo che ci è molto chiaro».

Altra spina nel fianco, la contraffazione di prodotti tipici. Come la si combatte?
«I controlli sono frequenti e le multe salate. Ma la chiave di volta è l'informazione: ai consumatori deve essere chiaro che se due prodotti apparentemente uguali costano differentemente è perché il più caro è migliore. Non solo più buono ma soprattutto più salutare. Anche su questo è incentrata la campagna che punta alla tutela Unesco: Artusi, autore alla fine dell'800 del primo libro di ricette italiane, guarì dal colera nutrendosi di minestroni e passati di verdure. In quel libro raccontò l'eccellenza della nostra cucina e promosse la consapevolezza del cibo come fonte di benessere».

O di malessere: è vero che la carne sintetica di cui si ipotizza la produzione può essere nociva?
«È un tema che lascio ai medici. Ma la nostra posizione è chiara: in Italia non si può produrre né commercializzare».

Tuttavia in Italia ci sono allevamenti intensivi spesso nel mirino.
«Casi eccezionali: le nostre aziende zootecniche sono leader del rispetto animale e ambientale. Non dimentichiamo mai che i contadini e gli allevatori sono le prime sentinelle della salute del pianeta. Anche per questo siamo contrari allo sviluppo di cibi sintetici».

Un punto a favore sarebbe la loro maggiore sostenibilità. Non è d'accordo?
«Guai se si lasciassero campi incolti, o pascoli deserti: le catastrofi avvengono dove il territorio è abbandonato. Anche il ragionamento sul soccorso alle popolazioni africane preda delle carestie è viziato: l'Africa va aiutata a diventare autosufficiente con le risorse disponibili e le tecnologie che anche il nostro governo è pronto a offrire. La vera sfida è ancora una volta nella qualità: per riequilibrare le risorse del pianeta bisogna qualificare gli interventi, non ridurli». 

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