CrimiNapoli/3: Vincenzo Anceschi, il maggiore di Mussolini che sgominò la camorra di Caserta

CrimiNapoli/3: Vincenzo Anceschi, il maggiore di Mussolini che sgominò la camorra di Caserta
di Gigi Di Fiore
Venerdì 29 Ottobre 2021, 15:06 - Ultimo agg. 12 Novembre, 13:07
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«Ho mandato un maggiore dei carabinieri con questa consegna: Liberatemi da questa delinquenza con ferro e fuoco! Questo maggiore ci si è messo sul serio». Era il 26 maggio 1927, giorno dell’Ascensione, quando Benito Mussolini da capo del governo pronunciò queste parole in uno dei suoi discorsi più famosi. Aveva abolito nel gennaio precedente la provincia di Terra di Lavoro, la storica terra casertana fu divisa tra Littoria, oggi Latina, Roma e Napoli. Decisione politica, giustificata anche dalla presenza della “terribile plaga della camorra”. Nel Casertano si erano organizzati violenti gruppi criminali. Erano i progenitori dei Casalesi, “i Mazzoni” che per primi si erano resi autonomi dal controllo dei camorristi napoletani alla fine dell’800. Nel 1926, una relazione del ministero dell’Interno già parlava di “camorra a raggiera tra Napoli, Aversa, Caserta, Nola, l’agro sarnese-nocerino”. Nella Terra di lavoro, l’organizzazione dei camorristi era a struttura piramidale con «un rigido sistema di gerarchia e omertà che stringe bufalai e trasportatori delle diverse aziende tra di loro assieme a ladri e ricettatori, lungo le vie del furto di bestiame e della delinquenza latitante in un ampio territorio rurale». 

La provincia di Caserta era un territorio dove, secondo le statistiche raccolte tra il 1922 e il 1926, furono commessi 169 omicidi, 918 lesioni, 2082 tra furti e rapine, 404 danneggiamenti, 171 episodi di resistenza alla forza pubblica. Ancora più grave la situazione nella sola area aversana, dove gli omicidi erano stati 169. Un’emergenza, aumentata in quasi 30 anni da quando Vincenzo Serra, capintesta della “Onorata società” in Terra di lavoro, aveva scelto il giorno che ad Aversa dedicavano alla Madonna di Casaluce per dichiararsi autonomo dai “napoletani”.

Era il 15 giugno 1899 quando gli “aversani”, cresciuti di numero e di gente dal facile coltello e revolver, si staccarono dall'organizzazione della camorra di Napoli. Serra, con quasi duemila “cumparielli” nell’intera provincia, fu il primo capintesta autonomo, succedendo a Francesco Zampella e Giuseppe Perfetto. Stabilì che tra Casal di Principe, Villa Literno, Aversa, San Cipriano e Caserta, ogni attività economica dovesse versare una percentuale alla “Onorata società”. Napoletani compresi, che si spostavano in Terra di Lavoro, numerosi tra i fuochisti, i bancarellari, i cavallari, i borseggiatori nelle fiere, i commercianti all’ingrosso di mozzarelle. Senza contare le guardianie negli allevamenti di bufale, o il pizzo preteso dai produttori delle succulente mozzarelle. Una camorra potente e autonoma, diventata un problema per il regime fascista. 

 

Nell'autunno del 1926, Mussolini convocò a Roma il maggiore dei carabinieri Vincenzo Anceschi. Nato a Giugliano 50 anni prima, figlio di Prospero maresciallo dei carabinieri, Anceschi era allora al comando della “divisione di Caserta”, come si chiamava il comando provinciale, dove si era insediato il 6 dicembre 1925. Naturalmente, con lo scioglimento della provincia di Caserta era stato inserito nei ruoli della Legione di Napoli, incaricato di avere un occhio particolare sul territorio aversano. Il capo del governo fascista fu chiaro: il maggiore doveva ripulirgli l’Agro aversano, il Nolano, il Giuglianese da “tutti i delinquenti organizzati in bande”. Senza scrupoli, o limitazioni di norme giuridiche. Carta bianca assoluta, con rinforzi di 80 uomini ripartiti in tre squadriglie e otto stazioni temporanee. Un incarico di responsabilità e non semplice per l’ufficiale che, entrato nei carabinieri nel 1895, aveva lavorato in Sicilia, Puglia, Firenze, Roma, Salerno, Milano, Bergamo e aveva partecipato anche alla prima guerra mondiale. Un ufficiale dal curriculum già ricco di encomi. Lavorò con il sostegno di Mussolini e, soprattutto, poteva fregarsene del codice. Pugno di ferro e lo usò al meglio contro una camorra di non meno di 900 affiliati, con allora due capi dichiarati: Gennaro Palazzo, chiamato “il re dei Mazzoni”, e il suo numero due Girolamo Rozera, detto “il viceré”.

Dal dicembre del 1926 al maggio dell’anno successivo, gli uomini di Anceschi arrestarono nella zona dei Mazzoni qualcosa come 1.699 affiliati alla camorra e nella sola zona di Aversa altri 1.278. Facevano quasi tremila arresti in cinque mesi. Mussolini parlò di “chirurgia fascista” e, nel suo discorso, citò le decine di telegrammi di ringraziamento ricevuti per “l’opera necessaria di igiene da combattere fino alla fine”. Finirono in carcere anche una ventina di capi di sottogruppi dell’organizzazione aversana, come Eugenio Di Bello e Giuseppe Laudante.

Il maggiore Anceschi poteva ritenersi soddisfatto, anche perché non doveva rendere conto a nessuno se non a Mussolini. Il suo lavoro fu racchiuso in un famoso rapporto del primo maggio 1928, che nell’oggetto parlava di “Repressione della delinquenza”. Vi inserì un elenco di 5783 reati accertati tra il 1922 e il 1926. E descrisse cosa fosse la camorra dei Mazzoni: “La zona era popolata dai peggiori elementi della malavita, stretti tra loro e con un rigido sistema di gerarchie. Era delinquenza fosca, fondata sulla mutua assistenza nel malfare e soprattutto su un atavico ed erroneo sentimento di giustizia privata”. Una mafia, contro cui non furono pochi i “conflitti a fuoco” durante l’attività di repressione. Per arrestare i più pericolosi, Anceschi sceglieva le cerimonie pubbliche in cui sapeva di trovarli. Funerali compresi.

Il plauso e i complimenti del governo furono ufficialmente messi per iscritto dal colonnello Americo Reggio, comandante della Legione di Napoli. Tra i reati scoperti, c’erano anche una serie di episodi di favoreggiamento alla “emigrazione clandestina”. Il 19 febbraio 1929, il maggiore Anceschi fu promosso colonnello. Quattro anni dopo, andò in congedo ma fu richiamato in servizio nel 1936 e poi nel 1942 per guidare comandi di Legione in periodi di emergenza legati alla guerra. Fedele all’Arma, terrore dei camorristi casertani.

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