CrimiNapoli/1: Gennaro Abbatemaggio,
i segreti del primo pentito di camorra

CrimiNapoli/1: Gennaro Abbatemaggio, i segreti del primo pentito di camorra
di Gigi Di Fiore
Venerdì 15 Ottobre 2021, 13:00 - Ultimo agg. 27 Gennaio, 11:42
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Con questo articolo ha inizio la rubrica «CrimiNapoli» a cura di Gigi Di Fiore su Il Mattino.it. Ogni settimana racconteremo il lato oscuro della città partenopea e della Campania, storie di malavita e di camorra, per comprenderne a pieno il fenomeno, soprattutto alla luce dell'attuale momento di recrudescenza. Vicende di boss, di delitti, di processi, ma non solo: molto spazio avranno anche le storie delle vittime della criminalità organizzata e di chi la camorra l'ha combattuta e di chi continuerà a farlo in nome della legalità.

Gigi Di Fiore è inviato del “Mattino” di Napoli (Premio Saint-Vincent per il giornalismo nel 2001; Premio Pedio per la ricerca storica; Premio Melfi per la saggistica; Premio Guido Dorso per gli studi sul Mezzogiorno; Premio Marcello Torre per l’impegno civile). Nelle sue pubblicazioni si occupa prevalentemente di criminalità organizzata e di Risorgimento in relazione ai problemi del Mezzogiorno. Tra le sue ultime opere: La camorra e le sue storie. La criminalità organizzata a Napoli dalle origini alle paranze dei bimbi (2005, 2016), Controstoria dell’unità d’Italia. Fatti e misfatti del Risorgimento (2007, 2010),  La Nazione napoletana. Controstorie borboniche e identità suddista (2015), Briganti! Controstoria della guerra contadina nel Sud dei Gattopardi (2017), L’ultimo re di Napoli. L’esilio di Francesco II nell’Italia dei Savoia (2018), Napoletanità. Dai Borbone a Pino Daniele, viaggio nell’anima di un popolo (2019) e Pandemia 1836. La guerra dei Borbone contro il colera (2020).

 

Era un ladruncolo, un piccolo delinquente ai margini di quella che, a fine ‘800, si chiamava ancora la «Onorata società». Gennaro Abbatemaggio era l’uomo adatto a perfezionare le accuse che i carabinieri, guidati dal capitano Carlo Fabroni, stavano confezionando per annientare gli esponenti principali della camorra napoletana. Necessità virtù, con mezzi giustificati dal fine e il capitano Fabroni partì dal duplice delitto di Gennaro Cuocolo e di Maria Cutinelli per legarli a decisioni dei camorristi.

Quei delitti furono l’occasione ghiotta, per un’enorme processo sulla struttura, i riti, i rapporti della camorra napoletana. Si sarebbe scoperto che sui due omicidi non c’entrava la «Onorata società», ma alla sbarra finirono, e vennero condannati, uomini che da anni comunque si macchiavano di estorsioni, furti, rapine, violenze e angherie di ogni specie.

Il pentito 

Per suggellare il materiale investigativo raccolto, mancava un pentito dal di dentro. Un uomo che poteva raccontare le regole, i luoghi, le caratteristiche della società criminale contro cui anche casa Savoia sollecitava interventi. Gennaro Abbatemaggio era abituato a vivere ai confini della malavita, scaltro e buon orecchiante. Ufficialmente la sua occupazione era di cocchiere e stalliere. E per questo lo chiamavano «o’ cucchieriello». Sguazzava nelle frequentazioni criminali, ne raccoglieva i racconti con notizie di seconda mano che diede in pasto ai carabinieri del capitano Fabroni, ormai chiamati per la loro tenacia «i cosacchi».

«Criminale per abitudine» fu definito Abbatemaggio dal professore Montesano, perito psichiatra del processo scaturito dagli omicidi Cuocolo-Cutinelli. Il processo alla camorra napoletana, il «processo alla città» come lo avrebbe definito nel 1952 il film di Luigi Zampa. E di quel processo, che si tenne a Viterbo nel 1911, perché a Napoli mancavano sicurezza e serenità necessarie, «o cucchieriello» divenne uno dei protagonisti.

In aula

Basso e tarchiato, Abbatemaggio aveva due segni distintivi sul corpo, che indicava come prove regine delle sue dichiarazioni: un tatuaggio sul braccio sinistro che raffigurava una donna e uno sfregio sulla guancia sinistra. In realtà, la cicatrice veniva da una ferita che Gennaro Campolongo, «uomo di rispetto», gli aveva causato con un coltello. Motivo: Abbatemaggio aveva mancato di rispetto a una ragazza, Antonietta Zaccaria, figlia di un portinaio di Chiaia. E proprio sui Gradoni di Chiaia «o cucchieriello» fu affrontato a ferito. Altro che prova di affiliazione alla camorra.

Aveva 23 anni Abbatemaggio, quando divenne uno dei protagonisti d’accusa del processo Cuocolo. Era nel carcere di Santa Maria Capua Vetere e il maresciallo Erminio Capezzuto lo individuò come il pentito perfetto. Aggirò gli ostacoli burocratici e andò a parlargli, promettendogli la scarcerazione. Poi lo fece trasferire nel carcere di Pozzuoli e lo indottrinò sul delitto Cuocolo, sui sospetti dei carabinieri che lo collegavano agli interessi dei camorristi napoletani. Abbatemaggio chiese denaro, ma i carabinieri ne avevano poco da dargliene. Il 23 dicembre 1906, due mesi prima della scadenza della pena, il futuro "pentito" fu riportato a casa, in via Chiaia 175. Lunghi colloqui con i carabinieri, ascoltò tanti racconti, poi fece le rivelazioni, messe a verbale, sul delitto Cuocolo e i suoi contorni.

A Viterbo, il «cucchieriello» divenne il teste chiave del capitano Fabroni. L’uomo che «parlava dal di dentro». In 197 udienze tra il 1911 e il 1912 si consumò il processo dalle migliaia di atti in 41 volumi. Furono 587 i testimoni, 9 i periti. Il capitano Carlo Fabroni andò avanti per 67 udienze, sciorinando anche costumi e storia della camorra. Abbatemaggio si concesse fuori udienza all’intervista esclusiva di Ernesto Serao, inviato del «Mattino» a Viterbo con Antonio Scarfoglio. Una sentenza parallela per calunnia definì Abbatemaggio «provato simulatore, immorale e bugiardo». Si era raccontato come malavitoso dal 1901 al 1907 e poi picciotto di camorra dal 1909. Dopo il processo, scontata la lieve condanna, visse di piccoli furti e truffe. Allo scoppio della prima guerra mondiale, si arruolò nell'esercito e poi aderì al fascismo, barcamenandosi al limite della legge nella sua casa di via Nicotera. Alla fine di gennaio del 1921, preso dal rimorso e coinvolto in un'inchiesta per truffa aperta dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere, in un poco convinto e improvvido tentativo di suicidio, si era sparato un colpo di rivoltella che sfiorò il cuore. Di quel gesto, parlarono tutti i giornali, con articoli e commenti che interessarono l'intera città. Abbatemaggio fu ricoverato in fin di vita all'ospedale dei Pellegrini, dove riuscì a salvarsi.

Passarono altri sei anni e finalmente all’avvocato Rocco Salomone, che smascherò le storture del dibattimento di Viterbo a 15 anni da quelel vicende, ammise in una lettera del 9 maggio 1927 di essersi prestato a «una macchinazione preparata dai carabinieri» inventandosi tutto. 'O cucchierello avrebbe vissuto ancora fino agli anni ‘60 del secolo scorso, aggirandosi nelle redazioni dei giornali per vendere qualche racconto sulla camorra, sperando sempre in un interessamento dell'industria cinematografica alla sua storia. Prigioniero del suo passato, da primo pentito della camorra napoletana.

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